Due monumenti simboli della nostra città, uno del suo passato artistico e culturale, l’altro della sua nobile tradizione industriale, stanno inesorabilmente avviandosi verso il disfacimento; villa Ponchielli, testimone con l’attigua villa Gomes di una stagione felice della Lecco ottocentesca, legata agli anni della Scapigliatura, alle prime operistiche ospitate nel Teatro della Società, alla intelligente mediazione di Antonio Ghislanzoni, è decaduta al punto di mettere in forse un suo eventuale quanto ipotetico recupero. Da qualche giorno le facciate sono state impalcate, non come ci si augurerebbe per dare inizio a un restauro, ma per evitarne il crollo, dopo anni di inaccettabile incuria.
L’Amministrazione Comunale fa quello che può, date le ristrettezze finanziarie che ne condizionano l’attività, ma non si può fare a meno di notare come le responsabilità del degrado attengano anche e soprattutto alle amministrazioni che si sono succedute da quando la villa con il suo splendido parco fu molti anni fa acquistata dagli Istituti Riuniti Airoldi e Muzzi ai quali l’aveva lasciata in eredità l’ultima dei Gerosa Crotta. Quando questa benemerita istituzione lecchese ne entrò in possesso, la villa era in perfette condizioni, necessitava solo di interventi di ordinaria manutenzione.
Da allora sono passati alcuni lustri e nulla, si sottolinea nulla, è stato fatto non solo per dare una destinazione a un edificio storico intimamente legato alla storia lecchese, ma nemmeno per garantirne una normale manutenzione che la preservasse dal degrado e per impedire che diventasse un ricovero notturno per i senza tetto. Un bene che appartiene alla collettività, una eredità storica e culturale di una tale rilevanza meritava di essere valorizzata e destinata a una funzione sociale; si è proposto le mille volte in questi anni di farne la sede del Museo della Scapigliatura, in cui esporre testimonianze di quella felice stagione che aveva fatto di Lecco un punto di riferimento nell’ambito della cultura lombarda del secondo Ottocento. Ma tutto è rimasto sulla carta, e nel frattempo la villa di Amilcare Ponchielli si avviava a divenire un rudere.
L’altro simbolo della città, il capannone della fu ditta Badoni, ridicolmente definito “Broletto”, un esempio non banale di revival neogotico ottocentesco, è stato prima decurtato di due campate, quindi abbandonato a sé stesso e ormai anch’esso incamminato sulla strada della completa rovina. Sappiamo che ora è stato messo in vendita dalla società che ne è proprietaria, una vendita fallimentare che probabilmente non avrà esito, dato le miserande condizioni dell’edificio. E così si è persa nel tempo la possibilità di allogare in questa curiosa e affascinante costruzione quel Museo del Lavoro che avrebbe dovuto testimoniare la vocazione industriale di Lecco e del suo territorio, una storia plurisecolare di cui non rimane nessuna traccia, nessun reperto, nessuna documentazione, eccezion fatta per la lodevole realizzazione di un museo virtuale ospitato a Castello nel Palazzo Belgiojoso ma, ovviamente, si tratta di altra cosa.
Quando la gloriosa ditta Badoni, fondata nel diciottesimo secolo sulle rive del Gerenzone, chiuse definitivamente l’attività, allora si sarebbe dovuto pensare al destino dell’unico edificio sopravvissuto, e ancora perfettamente conservato, alla dismissione dello stabilimento, allora immaginare di acquisirlo al patrimonio pubblico, allora adoperarsi per la fondazione di un Museo del Lavoro; erano gli anni ottanta del secolo scorso e un progetto forse ambizioso ma sacrosanto come quello avrebbe dovuto essere condiviso dall’amministrazione comunale, dalle forze economiche e sociali della città, dalle stesse ditte che qui avevano operato e creato benessere e lavoro.
Ma occorreva la capacità di rendersi conto dell’importanza di una simile promozione, occorrevano discernimento e spirito d’iniziativa. Tutti requisiti che sono del tutto mancati e che possiamo soltanto rimpiangere, così come ci indigniamo per il destino cui vanno incontro due simboli, preziosi, della nostra città.
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