Di tanto in tanto si torna a parlare di una non meglio precisata valorizzazione del dialetto lombardo, auspicandone lo studio nelle scuole, l’incentivazione a livello dei parlanti, l’utilizzo nei più svariati contesti della comunicazione. E’ di questi giorni una iniziativa della Regione Lombardia volta a favorire il recupero del lombardo al fine di contrastarne l’indebolimento e la conseguente scomparsa. La prima osservazione che si può opporre a un simile disegno è che un dialetto lombardo non esiste e non è mai esistito. Il lombardo innanzitutto si divide in due grandi famiglie, chiamate lombardo occidentale e lombardo orientale. Alla prima appartengono il milanese, la variante più prestigiosa e dotata di una nobile letteratura, il comasco, il lecchese, il brianzolo, il varesotto, il lodigiano, l’alto pavese, il basso valtellinese; alla seconda il bergamasco, il bresciano, l’alto cremonese e l’alto mantovano. All’interno poi di questi due grandi gruppi linguistici sussistono differenze lessicali e grammaticali cospicue, tali da rendere se non incomprensibili, almeno alquanto difficoltosa la comunicazione fra parlanti dello stesso gruppo, per esempio fra un pavese e un valtellinese; per non dire della estrema difficoltà di comprensione fra un parlante del gruppo occidentale e un altro del gruppo orientale.
La minuta frammentazione dei dialetti rappresenta un ostacolo pressoché insormontabile e tale da rendere inefficace qualsiasi tentativo di uniformare un lessico che non ha, né ha mai avuto, quella omogeneità di fondo che possiede, per fare un esempio, il catalano che, pur anch’esso soggetto a varianti, ha nel tempo elaborato un linguaggio standard e una codificazione ortografica che ne fanno una lingua a tutti gli effetti, parlata e scritta in modo univoco da tutti gli abitanti della regione.
Nel caso del lombardo, come di qualsiasi altro dialetto italiano, siamo di fronte a una declinazione infinita di parlate, spesso modificate a pochi chilometri di distanza e soprattutto prive di quelle regole ortografiche che permettano una corretta e facile lettura. I dialetti sono una ricchezza in sé, una preziosa testimonianza di evoluzione del linguaggio, un campo di studio, di comparazione, di analisi che non può essere confuso con sterili rivendicazioni campanilistiche che non hanno più senso nella dimensione globalistica in cui si muove la società. Studiare i dialetti, comprenderli, possibilmente usarli come strumento di comunicazione linguistica a livello domestico può essere un fatto condivisibile, ma che deve nascere dalla spontaneità e non dall’obbligo.
Il destino dei dialetti, e lo diciamo con amarezza, appare inesorabilmente segnato. D’altro canto viviamo in tempi in cui perfino le grandi lingue europee di cultura soggiacciono all’imperio dell’inglese, la vera lingua franca del pianeta. Battersi per la rivitalizzazione a livello ufficiale delle parlate locali significa non solo combattere una battaglia di retroguardia già persa in partenza, ma anche ridursi a una visione angusta del ruolo stesso delle lingue e dei dialetti, una visione largamente superata dalla storia. Un grande linguista, Gaetano Berruto, ha espresso un pensiero che non possiamo che condividere, quando scrive che “non fa certo bene alla ricerca dialettologica lo strombazzamento della rivendicazione etnico politica delle piccole patrie, che si basa inevitabilmente non solo sul recupero (che certo non sarebbe un male), ma sulla forzatura del dialetto e sulla strumentalizzazione di fatti che sono primariamente linguistici, e tali dovrebbero rimanere, al di là di ogni spinta emotiva”.
Occorre dunque renderci conto che i dialetti sono discipline da studiare, certo, da indagare in modo scientifico, una fonte inesauribile di conoscenza, ma senza pretendere di farne strumenti efficienti e pratici di comunicazione, un ruolo al quale non possono più aspirare per le molteplici ragioni che li hanno confinati in una dimensione ormai del tutto secondaria che ne ha fortemente e irreversibilmente indebolito la funzione sociale.
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