Rosabella è l’ultima parola che Charles Foster Kane, il demoniaco protagonista di “Quarto potere”, pronuncia prima di morire.
Tutto il capolavoro di Orson Welles è costruito su questo rompicapo: chi è Rosabella (Rosebud, bocciolo di rosa, nella versione originale inglese)? Qualcosa che il potentissimo magnate non è riuscito a ottenere? Una persona? Una cosa? Un sogno? Una metafora, un delirio?
L’enigma viene svelato nella scena finale del film. Il tycoon è morto, abbandonato da tutti, la sua avventura su questa terra si è esaurita, i giornalisti che si erano
assembrati nella villa a caccia di notizie se ne vanno e da lì parte una ripresa panoramica che inquadra degli operai che buttano in un falò alcuni vecchi oggetti inutili appartenuti a Kane, compreso lo slittino che usava sempre da bambino prima di essere strappato alla sua famiglia. E marchiata sul legno, un attimo prima che bruci e sparisca per sempre, si intravede la parola Rosabella. Tutta la sua vita è stata decisa da quel momento di dolore totale, assoluto, inesprimibile. La perdita del suo slittino. La perdita del suo mondo d’infanzia. Un lutto. Il primo della sua tormentata esistenza.
La scena è celeberrima e pedagogica. E proprio per questo è tornata alla memoria d’incanto, come una madeleine proustiana, all’inizio dell’incontro organizzato venerdì sera dal nostro giornale al Teatro Sociale di Como con Brunello Cucinelli, il grande imprenditore del cashmere famoso in tutto il mondo. Mille persone, atmosfera straordinaria, una lezione di imprenditoria umanistica così perfetta da sembrare quasi impossibile. Una serata magica. Ma il punto non è questo. Il punto più profondo e tutto psicologico, la lezione forse più fertile di questa conferenza sta proprio nel suo incipit, quando Cucinelli ha ricordato come l’attimo decisivo della sua vita - come persona e come imprenditore, dopo il quale nulla è stato più come prima e dal quale tutto il resto è disceso – sia racchiuso in quel momento quando lui, ancora ragazzino, ha incrociato lo sguardo triste di suo padre, gli occhi velati di lacrime per l’umiliazione, l’avvilimento e il dolore causati dall’aver abbandonato la vita nei campi per finire dentro una fabbrica. Lo svuotamento di senso. La massificazione. Le offese. Le umiliazioni, addirittura, subite da parte del datore di lavoro. Ecco, in quel momento, in quel momento preciso, lui ha deciso che si sarebbe inventato un’azienda tutta diversa e che quella violenza nessuno avrebbe mai più dovuto subirla. Magnifico, no?
Non sta a noi giudicare quanto sia condivisibile, ammirabile o velleitaria una visione del mondo di questo genere, anche se il successo clamoroso del marchio Cucinelli nel mondo depone di certo a suo favore: è più toccante riflettere quanto questo discrimine sia comune a tutti. Pensateci un minuto. C’è sempre un momento - generalmente durante l’infanzia o l’adolescenza, è lì che succede tutto, è lì che si scrivono le poche pagine straordinarie della nostra vita: tutto il resto fa massa, fa volume – che spezza l’equilibro, che ferisce l’anima, che rompe la ciclicità dell’esistenza, lo stato di natura, l’età dell’innocenza, per gettarla in una nuova dimensione verticale, in una diastemia irreversibile. Da lì in poi l’inerzia cambia verso. E non è che questo valga solo per chi ha successo o ce la fa o crea qualcosa di importante, è assolutamente identico anche per chi poi non combina niente, assomma disastri su disastri o si perde per sentieri sbagliati e contorti : che sia il terribile, disperato monopolista Kane, il cultore di Marco Aurelio Cucinelli o l’ultimo degli ubriachi dell’osteria o dei travet del catasto di Aci Trezza è davvero lo stesso. L’unica cosa certa è che da quell’episodio in poi ogni cosa è illuminata, come se quella sottile linea rossa continui a guidarti e a spingerti e a pungolarti e ad angustiarti per tutta la vita. Forse aveva ragione Freud: i momenti decisivi avvengono subito, tutto il resto non ne è che la conseguenza, per quanto questo possa dispiacere al nostro ideale di libero arbitrio e all’illusione di poter sempre cambiare il corso del nostro viaggio.
Se si scava nella memoria, ognuno troverà la sua: un torto subito, un’umiliazione gratuita, una parola di troppo o forse di troppo c’era stato un silenzio, la povertà umiliante o una furia repressa, uno sguardo cattivo, il vedersi brutto allo specchio o grasso o perdente o inadeguato, l’invidia nei confronti di quelli ricchi, le lacrime segrete e vergognose su un romanzetto da quattro soldi, l’erompere dell’orgoglio unica arma di difesa dei sensibili e degli emotivi, un amico che ti tradisce o tu che tradisci lui, l’amore per tuo padre oppure l’odio e mille altre cose ancora. Ci sono infinite increspature sulla superficie della nostra anima: di certo ognuno di noi ricorderà la propria. Ma è da quella che poi è derivato tutto il resto. E capire che Cucinelli ha sviluppato non solo il suo modello di impresa, ma anche di filosofia di vita, la fuga dall’ansia e dallo stress, il rapporto socratico con i propri dipendenti, l’avversione per chi lavori più di sette ore al giorno, gli investimenti milionari per il restauro del borgo di Solomeo, la cultura del bar e quindi il gusto popolanissimo, boccaccesco della burla, dello sberleffo, della battutaccia carnale, sanguigna, sessuale così tipica della sua terra, come conseguenza di quel momento là, avvenuto tanti anni prima, ha davvero dello straordinario.
È bello vedere il primo segno dell’erpice dentro un solco lunghissimo destinato a durare per sempre, ma a tratti anche un po’ angosciante, come se fosse una camicia di forza invisibile, subliminale ma al contempo tenacissima. Tutto è già deciso. Colto quell’attimo fuggente, da lì in poi quello diventerà il tuo codice, la tua missione, spesso la tua dannazione. Quello è il tuo destino e quello, di sicuro, l’ultimo pensiero che farai prima di andartene. Un ultimo sguardo a Rosabella. C’è qualcosa di più commovente?
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