Quei vecchi marescialli dei Carabinieri, che conoscevano gli infiniti recessi dell’animo umano quanto e forse più di psicologi e psichiatri, lo snocciolavano a memoria come una poesia del Pascoli. È l’articolo 367 del Codice penale, secondo cui chiunque «simula le tracce di un reato in modo che si possa iniziare un procedimento penale per accertarlo, è punito con la reclusione da uno a tre anni».
Di solito vi incappano i mitomani o gli squilibrati, oppure persone in apparenza normali che di punto in bianco salgono «alla ribalta della cronaca» -come si scrive con un’abusata frase fatta- per un colpo di testa o un subitaneo furore, che li spinge a inventare di sana pianta i reati più strani ma all’apparenza verosimili, senza che in un primo momento se ne capisca il perché.
Mania di protagonismo? Voglia di recitare per qualche ora una parte, sia pur di sconfitto o buggerato, truffato o malmenato, pur di richiamare l’attenzione su di sé a costo di pagare di persona?
Le cronache dei giornali sono piene dei più assurdi casi di simulazione di reato: da chi si inventa una rapina con aggressione all’uscita del bancomat, mettendo in moto Polizia e Carabinieri per un apparente danno di cento euro, alla donna che vuol far credere di essere stata violentata all’alba dai nordafricani, all’uomo di mezza età che denuncia vociferando il furto di migliaia di euro e del cellulare, ritrovato poi nella sua tasca, fino ai coniugi cuneesi che volevano far credere alle forze dell’ordine di aver subito un furto milionario di opere d’arte e casse di champagne nel loro appartamento, addirittura per sette volte.
Ecco che ora, a distanza di pochi giorni, il reato si reitera, a Merate e in Valsassina, dove nel primo caso un uomo di 42 anni ha denunciato la clonazione della carta di credito e del bancomat per nascondere i prelievi che lui stesso aveva fatto per giocare alle slot machine, e nel secondo un’ucraina di 21, badante di un’anziana, alle sei del mattino allertava il 112 costruendo un castello di menzogne su un’inesistente violenza da parte di due uomini entrati in casa con uno stratagemma, che poi l’avrebbero derubata di mille euro. Anche in questo caso il millantato furto serviva a coprirne uno vero, di soldi sottratti alla padrona di casa per puntarli ai videopoker.
Se i marescialli di un tempo potevano contare soltanto su fiuto ed esperienza, -a volte bastava un piccolo “saltafosso” per far crollare il cantastorie di turno- oggi i simulatori fanno i conti senza la tecnologia, senz’altro meno istintiva e di certo implacabile, perché nella gran parte dei casi basta una telecamera ben piazzata per confutare ogni copione, pur recitato alla perfezione, oppure una ricerca al computer sui movimenti bancari veri o presunti, senza contare i tabulati telefonici.
Ma accanto all’“ingenuità” dei millantatori, la cui patologia li apparenta ai bambini che confondono o sovrappongono la fantasia alla realtà senza rendersene conto, affiora un fenomeno ben più complesso e preoccupante, legato alla compulsione per il gioco, che spinge le persone a dover scegliere tra due vergogne, quella di essere denunciati per furto o scoperti dai familiari e l’altra, di finire nelle pagine dei giornali come mendaci, senza possibilità di appello.
Si gioca per vizio, disperazione o per ammazzare la noia, spesso per esorcizzare la solitudine o nel sogno impossibile di arricchirsi ed emanciparsi, come forse è il caso della badante ucraina, ma il giocatore, come il bugiardo, vive in un’altra realtà, in cui la certezza del successo, purtroppo, non è mai messa in dubbio.
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