Cosa serve all’Europa per riuscire a competere

Il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, mercoledì da Rimini ha indicato una rotta per chiunque fosse seriamente «alla ricerca dell’essenziale» sul futuro della nostra economia, per parafrasare Cormac McCarthy e il titolo del Meeting. Per quanto riguarda l’Italia, l’essenziale è che esistono «problemi strutturali – ha detto Panetta – che da un quarto di secolo frenano il nostro sviluppo: dalla bassa crescita all’insoddisfacente andamento degli investimenti, dalla stagnazione della produttività fino alla preoccupante prospettiva demografica». Ne discende che «la crescita resta l’obiettivo fondamentale per l’Italia», ha spiegato il Governatore, ma per ottenerla dobbiamo «rafforzare la concorrenza, potenziare il capitale umano, accrescere la produttività del lavoro, aumentare l’occupazione di giovani e donne, definire politiche migratorie», affiancando il tutto con «una gestione prudente dei conti pubblici». Sul fronte europeo, allo stesso tempo, «un banco di prova per la nuova legislatura europea sarà la capacità di confermare il ricorso a progetti di spesa comuni e di avanzare verso un’unione più completa e più integrata sul piano sia finanziario sia fiscale». L’essenziale, stavolta, è sfatare quella che Panetta ha definito «semplicemente un’illusione», cioè «l’idea che l’Unione economica e monetaria possa funzionare efficacemente senza una capacità fiscale centralizzata».

Soltanto a queste condizioni, minime seppure non semplici da ottenere, l’economia italiana e quella europea potranno gareggiare nella competizione che più conta e che ci vede arrancare rispetto agli altri blocchi geopolitici, quella della produttività e dell’innovazione tecnologica che la alimenta. Le aziende del nostro continente, infatti, in media fanno più fatica di quelle americane o cinesi a utilizzare nuove tecnologie nel processo produttivo. «L’industria europea è intrappolata in settori a tecnologia intermedia e poco presente in quelli di frontiera», ha spiegato Panetta evocando «studi recenti» che meritano un approfondimento.

È proprio una recente ricerca di CESifo, pensatoio internazionale con sede a Monaco di Baviera, a illustrare con dovizia di particolari la «middle-technology trap» in cui sembra caduta l’Europa. Innanzitutto nell’Unione le risorse pubbliche e private investite in ricerca e sviluppo (R&S) nel 2021 ammontavano al 2,2% del Pil, contro un ben più consistente 3,5% del Pil negli Stati Uniti, con una distanza che si è ampliata negli anni soprattutto nel settore privato. Nel 2022 l’azienda americana Meta, ex Facebook, da sola ha speso in R&S quanto le prime 50 imprese francesi; la statunitense Amazon addirittura avrebbe speso in R&S più del totale stanziato da tutta la Francia, considerando assieme settore pubblico e privato. Inoltre le aziende europee concentrano la loro ricerca su settori non più esattamente alla frontiera tecnologica: l’automotive, prima di tutto, poi i macchinari industriali, la chimica, le telecomunicazioni, ecc. Lo testimonia il numero di brevetti depositati in accordo con il Patent Cooperation Treaty: gli Stati Uniti e il Giappone superano l’Ue sia nella categoria della tecnologia informatica che in quella dell’economia digitale. Si può inoltre osservare, notano ancora i ricercatori di CESifo, che nel 2003 le prime tre aziende private per quantità di risorse investite in ricerca in Europa erano Mercedes (settore automobilistico), Siemens (elettronica) e Volkswagen (auto), negli Stati Uniti invece Ford (auto), Pfizer (farmaceutico) e General Motors (auto). Vent’anni dopo, ecco la nuova classifica: in Europa a spendere di più in ricerca sono sempre tre gruppi tedeschi dell’automotive, cioè Volkswagen, Mercedes e Bosch; negli Stati Uniti invece sono passate in testa aziende che si occupano di nuove tecnologie e software, cioè Amazon, Alphabet (ex Google) e Meta.

Intrappolati nella tecnologia intermedia, come Europei rischiamo di perdere le opportunità e il potenziale di crescita maggiori che sono associati ai settori high-tech, dal software ai semiconduttori. Come se non bastasse, Bruxelles con qualche eccesso dirigista a volte sembra voler accelerare la «rottamazione» dei comparti in cui eccellevamo, dalla chimica all’auto. È dunque dalle parole di Panetta che dovremmo avviare una riflessione – magari autocritica - sul futuro di un’Unione che un tempo aspirava a diventare l’economia della conoscenza più competitiva del pianeta.

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