Come trattenere 130mila cervelli in fuga.
«Iniziamo a non considerarli un costo»

Capitale umano Il professor Anelli (Bocconi): nel mercato del lavoro le imprese devono costruirsi un’attrattività che vada oltre l’Italia. Bonaccorsi Ravelli: a Londra si investe molto sui ragazzi

La salute di un Paese si misura su molteplici e complessi parametri tra loro interconnessi, ma uno in particolare rappresenta un elemento di equilibrio importante e non può sfuggire alla diagnosi: i giovani nel mondo del lavoro. Le nuove generazioni rappresentano la forza futura del Paese e il loro numero e la loro istruzione influenzano la produttività e la competitività economica. Ecco perché la ferita che si è creata nel fattore demografico sta assumendo aspetti preoccupanti, non si intravede una cura a breve termine e cresce il numero degli expat, i giovani che cercano di costruirsi un futuro all’estero. In una recente ricerca Ipsos per Confindustria Giovani è emerso che i cosiddetti «cervelli in fuga» nel 2023 sono stati 130mila, ossia il 15% in più dell’anno precedente. A dire il vero non tutte le ricerche su questo tema indicano numeri sovrapponibili, ma questo dipende dalle fonti e dalle metodologie di rilevazione. Tutte però concordano nel delineare un quadro preoccupante di giovani in cerca di migliori opportunità all’estero. Questo fenomeno rappresenta una perdita di capitale umano e talento per l’Italia, tanto più che l’attrazione dell’estero sembra non arrestarsi, infatti il 36% dei giovani tra i 18 e i 35 anni è disponibile a lavorare all’estero e il 60% dei laureati under 35 vorrebbe lavorare all’estero. Alla luce di un quadro così preoccupante vien da chiedersi se la causa di questo esodo stia maggiormente nel desiderio di nuovi orizzonti dei giovani o se sia un problema di poca attrattività delle aziende italiane. Se il primo è più variabile, il secondo è sicuramente un fattore misurabile e da affrontare seriamente. La ricerca Ipsos rivela che il 62% dei giovani ha un’immagine negativa delle aziende italiane. Le imprese sono percepite come poco moderne (48%), chiuse al cambiamento (45%) e poco meritocratiche (43%). A queste motivazioni sull’emigrazione si aggiungono: lo stipendio inadeguato (lo dice il 65% dei giovani italiani), la mancanza di opportunità di carriera con scarsa crescita professionale (58%) e precarietà del lavoro (54%).

Competitivi oltre confine

Ciò che manca maggiormente in Italia è la competitività delle imprese a livello europeo. Ne è convinto Massimo Anelli, docente del Dipartimento di Social and political sciences dell’Università Bocconi di Milano: «Ormai siamo in un mercato del lavoro che a livello europeo è integrato. Basta vedere i nostri universitari: abbiamo tantissimi studenti stranieri che attraiamo qui, vivono molto bene a Milano: tedeschi, francesi che vorrebbero rimanere in Italia a lavorare. Però, ancor prima di laurearsi, hanno un’offerta dall’estero per lo stesso lavoro in Italia, ma l’impresa a Monaco paga esattamente tre volte di più come primo salario». C’è quindi una questione di attrattività che ormai è internazionale. Un’azienda di Milano non dovrebbe più competere per attrarre un lavoratore di Bergamo o di Roma, ma addirittura di Monaco. Bisognerebbe cambiare un po’ la prospettiva locale per evitare la fuga di cervelli. «Il problema è che non abbiamo lo stesso appeal delle aziende straniere. Va ridotto questo gap. C’è anche una questione culturale. Ad esempio in una multinazionale enorme, cioè con base anche a Milano, i salari sono differenziati: nella sede di Milano sono molto più bassi di quelli della stessa multinazionale a Monaco. Sotto lo stesso marchio, tra l’altro, con la possibilità di muoversi internamente facilmente dall’azienda in Italia a quella in Germania e in altri Stati. In questo senso, diventa molto importante riuscire ad attrarre gli italiani che sono andati all’estero in modo che portino quella visione un pochino più internazionale nelle nostre imprese». Un passaggio culturale fondamentale per un Paese come il nostro costellato di Pmi. «Da noi - sottolinea Anelli - c’è un approccio al lavoro un po’ miope, è culturalmente visto come un costo, mentre all’estero è visto come un fattore di produttività. Questo è un passaggio culturale fondamentale sul tema dell’attrattività».

Qui Londra

Oggi in Europa le mete più gettonate dai giovani sono il Regno Unito (16,4%), la Germania (13,8%), la Francia (10,4%) e la Svizzera (9,1%). Londra, nonostante sia più «distante» con la Brexit, rimane ancora un trampolino professionale per i giovani. Lo conferma Radames Bonaccorsi Ravelli, manager a Londra e riferimento di tanti giovani italiani in cerca di lavoro: «La differenza con l’Italia? Qui le aziende diventano attrattive puntando tutto sul capitale umano: ai ragazzi pagano corsi di specializzazione, qui vengono spinti a far carriera, a costruirsi e specializzarsi in una professione. Ti valutano, e se ti scelgono ti valorizzano. Qui ci facciamo quattro risate quando sentiamo come vengono trattati i giovani dalle aziende in Italia. Non è colpa dell’Italia, ma di chi non vuol dare la possibilità ai giovani di potersi realizzare. Se arriva a Londra chi ha fatto solo le superiori, però fa capire che è capace, la compagnia investe su di lui, lo spinge a fare carriera. Quindi la prospettiva è diversa: qui per noi il giovane non è un costo, ma un investimento».

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