Diciamoci la verità, ai tempi del liceo, Giosuè Carducci (Valdicastello, 27 luglio 1835 - Bologna, 16 febbraio 1907) era il poeta più spernacchiato dagli studenti. Non odiato come Manzoni - i danni che ha fatto la scuola ai Promessi sposi… - non guardato con sospetto come Alfieri, non amato come Leopardi, non respingente, ma anche torbido e affascinante come D’Annunzio. No, semplicemente irriso, dileggiato, burlato, sbeffeggiato: “Ma chi sei, il figlio scemo di Carducci? “Ragazzi, è arrivato il Carducci della 5E!”, “Ma quello lì scrive come Carducci, ah ah ah…”. Un destino infame.
Eppure, alle anime più sensibili e attente all’amara sorte dei reietti e dei mobbizzati è sempre rimasta la curiosità di sapere chi fosse veramente il lirico toscano, come passasse le sue giornate, perché c’era di certo del bello e del buono anche in lui, come in tutti, in fondo, e che quindi ci dovesse essere per forza qualcosa che ci riguardasse e che ce lo rendesse vicino, perché quelle anime sensibili capivano che, al di là delle crudeli derisioni, in ognuno di noi albergava un piccolo, timido Giosuè Carducci inespresso.
Bene, da qualche tempo, e in particolar modo da quando gioca (tra l’altro molto bene) la nostra Nazionale di calcio e in particolar modo durante la cronaca della magnifica vittoria sul Belgio di venerdì sera, abbiamo avuto l’illuminazione sulla via di Damasco. Carducci è vivo. Carducci è tra noi. E fa il commentatore sportivo su Sky. È vero che sono ormai anni che delizia tutti gli abbonati con le sue cronache liricheggianti, ma venerdì sera ha toccato vertici di retorica nazionalista e patriottarda da far impallidire quella già strepitosa dell’iconico Mondiale del 2006.
Che vocabolario, il padre delle lettere Fabio Caressa, che aggettivazione, che avverbi, che afflato mistico, che sintassi funambolica e ditirambica, che capacità commovente di toccare i valori più sacri della madre patria - il pallone, la pizza, il baffo nero, il mandolino - e di avvilupparli in una narrazione tutta irti colli e piovigginando sale e sotto il maestrale e urla e biancheggia il mare e forza ragazzi ed evviva evviva la nazione proletaria che sfida i giganti del profondo nord e orgoglio e intelligenza e possanza e perseveranza e moti risorgimentali e guerre d’indipendenza, che quasi ti pare di scorgere Caressa tramare con i carbonari e i mazziniani e i patrioti di Curtatone e Montanara e tutto uno sfarfalleggiare di superlativi comparativi e superlativi assoluti e cuori oltre all’ostacolo e stampelle di Pietro Micca ed eroiche evasioni dallo Spielberg.
Ogni gol un colpo di baionetta, ogni cross una raffica di spingarda, ogni chiamata del Var una carica di cavalleria e tu te ne stai lì ad ascoltarlo, il feldmaresciallo Caressa, tutto beato, beota e inebetito perché all’inizio ridi, poi sghignazzi, poi ti rotoli sul divano, ma piano piano senti che invece, in fondo, anche tu sei come lui, tutto un profluvio di luoghi comuni, banalità e stereotipi – Lukaku gigante d’ebano, Doku brevilineo guizzante, Chiellini eroico granatiere, Spinazzola che s’invola sulla fascia – che sono il frutto di secoli e secoli di cultura basata sul melodramma, sulla sceneggiata, sull’avanspettacolo felliniano e albertosordesco che aspetta solo l’occasione giusta – e quale occasione più ideale dei campionati di calcio? – per sgorgare e gorgogliare dal nostro animo in trionfo che, carognetto, individualista e familista amorale tutto l’anno poi, all’improvviso, al primo destro a giro di Insigne o alla prima parata di Donnarumma, si scopre più sovranista di Orban e più nazionalista di un colonnello serbo e che, tra uno sventolare di tricolori dalla finestra e un insulto ai maiali francesi o alle merde albioniche, trova nel premio Nobel delle telecronache patriottiche il suo vero conducator. Che paese meraviglioso.
Al suo fianco, spalla consona e insostituibile, un po’ come Nino Taranto con Totò, il ragionier Bergomi. Ragazzi, che coppia. Tanto il primo è tutto un giostrar di toni, pose, ululati, occhi di bragia, declamazioni e dichiarazioni di guerra dal balcone televisivo, tanto l’altro ci educa tutto compito e meticoloso ai segreti tecnico-tattici di Mister Mancini - vero uomo, vero virgulto della più sana schiatta italica, vero leader, vero Master&Commander, insomma, uno con due coglioni così! - su difese a tre e ripartenze e diagonali e sovrapposizioni e difensori che palleggiano e centrocampisti che guatano e attaccanti che duettano e ritmo e velocità e aggredire gli spazi e fare densità a metà campo e dare respiro alla manovra e che personalità e che maturità e che sfrontatezza questi bei ragazzi italiani che il mondo teme e invidia. Tutto un turbinare di schemi e programmi e necessità di spazi vitali, che da un momento all’altro ti aspetti di vedere Caressa&Bergomi che passano il Rubicone, Caressa&Bergomi che scavalcano le Alpi a dorso d’elefante, Caressa&Bergomi sulla linea del Piave, Caressa&Bergomi alla breccia di Porta Pia, Caressa&Bergomi che riconquistano Nizza e Savoia, Caressa&Bergomi che accarezzano bambini biondi, Caressa&Bergomi che invadono la Polonia.
Uno dirà, ma se questi non ti piacciono, cambia canale, tanto la partita la fanno vedere pure sulla Rai. Vero, ma lì è pure peggio. Lì finisci in mezzo a una tribuna elettorale di Ugo Zatterin. Silenzi, upupe, gufi reali, cespugli che rotolano nel deserto, grisaglie, filmati in bianco e nero tipo Piola ai Mondiali del 1938, cronisti e commentatori dal curioso accento romanesco che sarebbero sembrati vetusti già ai tempi di Martellini, una sceneggiatura talmente dorotea da far venire il latte alle ginocchia pure a Rumor e da spingere il povero telespettatore, gonfiato, ammorbato e abboddolito da tale litania, ad addormentarsi regolarmente prima del novantesimo.
Lo sport è una cosa troppo importante per lasciarla in mano ai giornalisti sportivi: Italia-Spagna di martedì godiamocela tutti quanti assieme. Ma attenzione, prima togliamo il volume.
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