Giornalismo molto spesso fa rima con cialtronismo. Qualche giorno fa - conoscendo i polli - ci si è armati di lente, cannocchiale e microscopio per andare alla ricerca, su giornali, giornaletti e giornaloni, della notizia dell’archiviazione delle accuse di violenza sessuale nei confronti del regista Fausto Brizzi, il Weinstein romano indagato per aver molestato decine di attrici e di aver così dato il via al glorioso #metoo all’italiana.
Bene. Su uno l’abbiamo scovata a pagina 16, su un altro a pagina 26, su un terzo a pagina 36 e via così, di quotidiano in quotidiano. E, naturalmente, sempre nella pagina di sinistra (quella meno nobile), sempre ben in basso, ben nascosta, ben ovattata, piccina picciò, tutta avvoltolata e incartata e sbianchettata, che meno si vede meglio è. E più si scartabellava con pazienza certosina e minuzia da analista di laboratorio alle prese con microbi, ectoplasmi ed esseri monocellulari, più tornavano alla mente i fantasmagorici titoloni dei giorni d’oro.
Ragazzi, una roba meravigliosa. E stupratore e violentatore e molestatore e abusatore e pastrugnatore seriale e maschilista e sessista e machista e orco della foresta e lupo mannaro, metafora vivente dell’abuso di potere, del ricatto psicologico ai danni di povere vittime ignare, candide come la neve, pure come il giglio, costrette a soggiacere alle voglie, ai capricci, alle bave, alla foja schifosa e purulenta del Landru dei Parioli. E giù ululati e maledizioni e vaticini e alti lai e sovrumane indignazioni di tutte le donne e di tutti gli uomini della repubblica delle banane, che questa è una cosa inaccettabile, è una vergogna, è uno schifo e dove sono le pari opportunità e dove sono le battaglie di generazioni di donne libere e fiere e dove sono le memorie di Emmeline Pankhurst e dove sono le gesta delle partigiane, delle vedette rosse, delle suffragette, delle eroine del Sessantotto e tutto il resto della peggio retorica del peggio femminismo straccione che ingorga la peggio letteratura da stazione e il peggio dibattito nei nostri salotti televisivi.
E che non ci fosse uno straccio di prova, che tutto il teorema dei neomoralisti da strapazzo, dei Torquemada sessuali, dei tromboni del politicamente corretto si basasse su una dichiarazione (poi ritirata) di una ex Miss Italia e su una serie di videointerviste a sedicenti attrici anonime e con la voce contraffatta, con le quali una pessima trasmissione come “Le Iene” ha dimostrato a quali livelli di fogna possa arrivare questo mestiere già tanto buffonesco di suo, bene, tutto questo era del tutto irrilevante. Dopo il caso Weinstein ormai si erano rotte le dighe. Quelle del buonsenso. E, soprattutto, quelle della decenza. La prima mentecatta, la prima attricetta fallita, la prima moralista un tanto al chilo si è sentita legittimata a sputtanare qualsiasi uomo bianco di potere a prescindere, in quanto lui, in quanto se stesso, in quanto emblema del regime autoritario fallocratico occidentale elitario. E se anche i riscontri non ci sono e le accuse sono state valutate dal Gip come “impalpabili” ed “evanescenti”, chissenefrega, basta scimmiottare il mitico “Io lo so, ma non ho le prove” dell’immortale Pasolini - o anche del non meno immortale Di Battista, visto che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.
E noi, noi cervelloni dei media, noi intelligentoni della comunicazione, noi analisti dei busillis della società liquida, quelli che dovrebbero tutto sapere, tutto capire, tutto distinguere e tutto divulgare, dentro mani e piedi - come nel caso Tortora, come in Tangentopoli, come nel metodo Stamina: come al solito, come sempre - nel tritacarne demagogico, nel circo mediatico, nello sputtanamento antropologico del capro espiatorio, quale che sia. Senza leggere le carte, senza garantire la difesa agli accusati, senza la minima decenza nel buttare nel secchio la presunzione di innocenza. Macché, un altro giro nella chiavica e poi basta tirare lo sciacquone. E che il soggetto in questione sia un regista mediocre, autore di commediole da quattro soldi, non c’entra ovviamente niente - Roman Polanski o Fausto Brizzi in questo senso pari sono -: quello che c’entra eccome è che a leggere il verbale di archiviazione del caso vien da ridere. O da piangere. O, forse meglio, da rabbrividire. E da vergognarsi.
Noi non sappiamo se Brizzi sia un violentatore seriale, un ricattatore di giovani attrici in cerca di un posto al sole, un generico maiale di mezza età nel quale tutti (?) noi possiamo identificarci o uno sposo modello. Non lo sappiamo di lui, come di nessun altro. Dalle carte processuali questo non emerge. E quindi la questione non esiste. E non sarebbe mai dovuta esistere, perché anche se conosciamo bene quanto forte sia il cordone ombelicale che lega dai tempi dei tempi il potere al materasso e quali e quante carriere femminili (non tutte, per carità!) sono dovute passare di lì con il consenso o con il ricatto, una società libera e liberale non può che basarsi sull’onere della prova. Tutto il resto è fuffa.
E invece qui il sospetto, l’accusa fanghigliosa è stata brandita come espediente, come mazza ferrata, come grimaldello di una ridicola, risibile e isterica rivolta femminile alle vongole, pagliaccesco scimmiottamento di quella maccartista e devastante hollywoodiana, che ha dato enorme visibilità ad accuse infamanti, ha riversato particolari morbosi e pruriginosi in pasto al popolo bue, ha sfasciato carriere e famiglie ed è andata avanti mesi a rovistare nel pattume, a tanfare l’aria di miasmi tossici per poi lasciare tutto lì a marcire, a insabbiare, ad archiviare. E adesso chi lo ripaga il signor Brizzi? Chi lo risarcisce dall’imbrattamento mediatico nazionale? Chi gli rimette la firma sul film, prontamente sbianchettata dalla sua casa di produzione cuor di leone? Chi si occupa della sua riabilitazione postuma? Vasto programma, per noi del club dei manettari con il ditino alzato.
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