Zelensky, un rischio
chiamato Kursk

Luglio 1943. Adolf Hitler, le cui armate non riescono a portare a compimento l’invasione dell’Urss scatenata oltre due anni prima, ordina l’ultima grande offensiva tedesca della seconda guerra mondiale: obiettivo della potentissima forza schierata dalla Wehrmacht (50 divisioni, 2700 carri e 2000 aerei) è Kursk, città della Russia meridionale da cui il dittatore nazista spera di veder presto partire una decisiva manovra a tenaglia in grado di prendere Stalingrado – disastrosamente mancata cinque mesi prima – e giungere fino a Mosca. L’impaziente Hitler andrà però deluso: in quella che è stata tramandata come la più grande battaglia di carri armati della Storia, durata quasi due settimane, i sovietici riportarono (a un prezzo di sangue mostruoso) una vittoria che stroncò le capacità offensive della Germania, invertendo l’inerzia della guerra. Dopo questa battaglia, Kursk venne mitizzata dalla storiografia ufficiale di Mosca come uno dei luoghi più sacri per la Patria.

Agosto 2024, ottantuno anni dopo. Vladimir Putin, presidente-dittatore della Russia post-sovietica dall’inizio del secolo, ha un problema non troppo diverso: da oltre due anni le sue armate, che nel febbraio del ’22 aveva lanciato su Kyiv nella certezza di prenderla in pochi giorni, sono impantanate in Ucraina. Come il suo predecessore Stalin, non risparmia le vite degli uomini in divisa pur di conseguire una vittoria che è ormai decisiva anche per la stessa sopravvivenza del suo regime: in poco meno di due anni e mezzo sono già morti al fronte 150mila soldati, e si stima che feriti e mutilati siano il triplo. Una lentissima avanzata russa nel Donbass ucraino viene pagata in media con quasi mille caduti al giorno, mentre le città nemiche vengono bersagliate senza tregua dal cielo. Gli ucraini, in inferiorità numerica e di mezzi, resistono a fatica e ogni tanto restituiscono sul territorio russo i colpi subiti, distruggendo navi, aerei e depositi di carburante, e colpendo città prossime al confine.

La mattina del 6 agosto arriva notizia di un’incursione ucraina in territorio russo, proprio nell’”oblast” di Kursk, rimasto finora intatto. Sembra la solita azione simbolica, un mordi e fuggi di poche ore condotto da deboli milizie di volontari russi ostili al regime del loro Paese, che attaccano partendo dall’Ucraina. Stavolta, però, non è così: sono uomini dell’AFU, l’esercito regolare di Kyiv. Dapprima gira voce che siano 300 incursori con una ventina di carri armati, ma già il giorno dopo si parla di 2000 uomini, l’avanzata incontra poca resistenza e prosegue per una quindicina di chilometri. L’8 agosto appare evidente che l’esercito russo è stato colto di sorpresa: in tutta la provincia di Kursk viene proclamato lo stato di emergenza con evacuazioni frettolose di migliaia di civili, l’Afu prende il controllo di 350 kmq di territorio russo, inclusa la cittadina di Sudzha dove c’è una strategica stazione di pompaggio di Gazprom, da cui passa quell’ultimo 5% di gas russo che viene ancora consumato in Europa. La propaganda russa va nel caos non meno dell’esercito. Putin viene definito “furente” da fonti anonime vicine al Cremlino mentre scorrono immagini di prigionieri russi legati con il nastro giallo-blu dei colori nazionali ucraini, mentre si apprende che in un solo attacco sarebbero morti (un tragico primato di tutta la guerra per la Russia) 500 soldati di un convoglio non protetto. Lasciato al fanatico ex presidente Dmitry Medvedev di straparlare di “Reich ucraino che va conquistato integralmente”, il dittatore decide di giocarsi la carta della retorica patriottica. A Kursk nel 1943, declama Putin, “venne segnata una svolta nella lotta contro i nazisti, e anche stavolta sarà così”. Intanto, però, si apprende che gli uomini che Zelensky ha inviato in Russia sono ventimila, e che tra Kursk e Belgorod i civili russi evacuati sono quasi dieci volte tanto.

Ovvio che Putin, costretto a richiamare truppe da luoghi remoti per spedirle a difendere Kursk, sia molto preoccupato: se un’intera provincia russa cadesse in mano nemica, lo choc avrebbe ricadute imprevedibili. Ma anche Zelensky deve fare attenzione. Perché l’umiliazione che sta infliggendo a Putin rischia di ritorcerglisi contro: scimmiottando lo Stalin del 1941, il dittatore di Mosca potrebbe rilanciare chiamando alla lotta patriottica contro una (inesistente) minaccia nazista, giustificando così una nuova mobilitazione militare al momento impopolarissima in Russia. In un Paese dove ogni voce di opposizione è ormai soffocata, non è difficile far leva su un antico istinto di sottomissione all’autorità dello Stato. Come ben scrisse Vassily Grossman, “solo coloro che attentano al fondamento basilare della vecchia Russia – alla sua anima schiava – sono dei rivoluzionari”: nulla del genere appare, purtroppo, all’orizzonte.

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