Ursula, no di Meloni. L’Italia resta fuori

Quello di ieri è stato il giorno più lungo per Ursula von der Leyen, la presidente che ha vissuto due volte, e per gli europeisti. La politica tedesca dei popolari (Ppe) è stata rieletta alla guida della Commissione europea, di fatto il governo comunitario, con margini superiori al previsto: 41 voti in più della uscente “maggioranza Ursula” (popolari, socialisti, liberali) contro gli 8 del 2019 e 50 franchi tiratori rispetto ai 75 della volta precedente. Due le novità del voto più importante nella storia dell’Europarlamento, definito così dal commissario Gentiloni: l’ingresso dei verdi nella coalizione centrista e il voto contrario della destra di Giorgia Meloni alla candidata. Un “no” incerto fino all’ultimo, dopo l’astensione al vertice dei leader nazionali, ampiamente contrattato fra le due signore, per quanto fra loro ci sia stata della chimica: dal 2022 si sono cercate e incontrate sulle politiche migratorie, si sono poi raffreddate sul Green Deal, per distanziarsi in chiusura di legislatura. Risultato di un “interesse nazionale“ perseguito più come prova di forza che non come negoziato politico, con un sottofondo di risentimento dopo l’esclusione nella scelta dei vertici di Bruxelles, e che rischia di declassarci all’irrilevanza, rivelandosi per quello che è: un errore.

L’Italia (socio fondatore, membro del G7, terza economia e seconda manifattura Ue) resta fuori dalla grande architettura. Avremo sì un commissario (come tutti i partner), magari anche di peso, ma restiamo confinati in un limbo: paradossalmente per una leader identitaria, in Europa siamo privi di identità, distinti e percepiti non pienamente europeisti. La premier, giunta all’ultimo meglio, non ha superato la contraddizione fra la guida di un Paese storicamente legato all’integrazione europea e la leadership degli euroconservatori che non hanno reciso del tutto i legami con il “sentimento” della destra radicale. L’allargamento del perimetro della maggioranza ai verdi, che ha determinato l’opposizione di Fdi, rilancia il Green Deal come ha enfatizzato la presidente, ma nell’ultimo anno la transizione ambientale ha subito un netto rallentamento, specie dopo le proteste degli agricoltori (bacino del consenso Ppe) e le riserve dei popolari con le accuse alla sinistra di eccesso di ideologia.

La stessa von der Leyen è stata attaccata dal suo partito e quindi, al di là della retorica di circostanza, andranno combinate teoria e prassi: quale tempistica e quale sostenibilità economica. Il successo di Ursula s’è consumato in un Europarlamento più spostato a destra e anche più frammentato, quasi “italianizzato”: i gruppi politici sono passati da 7 a 8 mentre le destre radicali occupano il 25% dei seggi. Fra crescente polarizzazione e divisioni interne e trasversali sui dossier sensibili. Lo si è visto di nuovo nel voto alla presidente e sulle armi all’Ucraina: Pd da una parte (con qualche mal di pancia) e Sinistra e grillini dall’altra, pure Sinistra e verdi. Scontate le opzioni fra loro conflittuali di Fdi, Fi con Ursula e Lega contro (con Salvini in modalità Papeete). In definitiva l’Italia offre l’immagine di un Paese in bilico sulla politica estera, specie nella relazione diretta fra sostegno all’Ucraina e strategie Nato. Il compattamento attorno a von der Leyen è stato sollecitato dalla crisi istituzionale in Francia e dall’attentato a Trump, cioè dagli choc provenienti dai due capisaldi storici della liberaldemocrazia.

L’Europa ricomincia dalla riaffermazione di una precisa scala di valori, Stato di diritto e difesa dell’Ucraina, riconoscendo, come ha detto senza sfumature Ursula, che la nostra democrazia è attaccata da dentro e da fuori: «Non accetterò che gli estremismi o le demagogie distruggano il nostro stile di vita europeo». Orban e associati sono avvisati, anche se il premier ungherese e attuale presidente di turno Ue, dopo il viaggio unilaterale da Putin, conta sull’impunità.

Meloni ha giocato tutta la partita nel segno di una certa ambiguità. Non ha colto l’opportunità della sconfitta di Marine Le Pen e dell’emarginazione di Orban: il sostegno a Ursula avrebbe segnato un netto distacco dalle forze più estremiste, accreditandosi una volta di più come leader della destra responsabile e di un sovranismo pragmatico, costruzione peraltro già in corso d’opera. Prima ha tentato di aggregare tutte le destre antisistema, poi Orban ha fatto il suo gruppo sfilandole gli spagnoli di Vox, quindi s’è posta come pontiere fra destra del Ppe e sovranisti. Infine s’è ritrovata isolata fra i leader nazionali e nell’area grigia fra europeismo ed euroscetticismo, perdendo peso nella destra sovranista.

Spiazzante la mossa dei verdi: con i loro 53 europarlamentari hanno garantito il paracadute alla presidente, rendendo comunque non decisivo, o soltanto aggiuntivo, l’ipotetico contributo della destra di Meloni. L’atlantismo della premier italiana, che l’ha accreditata all’estero, non appare tuttora bilanciato da un’adeguata preferenza europeista. Qual è la collocazione del nostro Paese? E’ ritenuto un interlocutore collaborativo di cui tener conto o una realtà indecifrabile, non ancora lontana dalle amicizie pericolose di ieri?

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