
Ha suscitato dibattiti, nei giorni scorsi, quel dato dell’IIo (l’agenzia dell’Onu che si occupadel lavoro) secondo cui da anni l’Italia conosce un forte calo dei salari, che dal 2008 a oggihanno perso ben l’8,7%. Le ragioni di questo diffuso impoverimento sono molte, a partiredal fatto che nel nostro Paese regolazione e tassazione soffocano libera iniziativa e voglia di fare.
Un’altra causa spesso ignorata, però, e di cui si parla poco, è il fatto che quella italiana è una società a bassa scolarizzazione. Nell’Unione europea, soltanto la Romania ha meno laureati di noi in rapporto alla popolazione. E senza dubbio esiste un legame evidente tra formazione e produttività, oltre che tra produttività e redditi.C’è allora bisogno che il mondo universitario sappia farsi più attrattivo, ma questo non sempre è facile: per una serie di resistenze ideologiche e corporative. Da noi, in particolare,prevale in molte discipline un atteggiamento che sottovaluta la dimensione pratica e operativa; e questo allontana molti potenziali studenti.Per giunta, gli atenei appaiono spesso “autoreferenziali”: in altri termini essi sembrano più focalizzati a servire gli interessi e le aspirazioni dei dipendenti invece che quelli del pubblico.Non a caso, da decenni sono stati cancellati quei corsi serali che nel passato permettevano a tanti di coniugare studio e lavoro.In sostanza, quello universitario è un mondo piuttosto chiuso e conservatore, che fatica ad aprirsi all’innovazione e alle esigenze dei tempi attuali. Per questo non sorprende che, da un lato, le università telematiche stiano conoscendo un notevole successo (permettendo a molti giovani in più di studiare) e che, dall’altro, siano costantemente sotto attacco da parte dei rettori e dei docenti delle università tradizionali, che non amano per nulla questa forma di competizione.Eppure è necessario che la percentuale dei laureati cresca, se vogliamo che l’economia italiana funzioni meglio e sia maggiormente competitiva. Ed è ovvio che soltanto un’offerta più varia e dinamica può ottenere questo risultato.Per giunta, non bisogna dimenticare che la formazione ha sempre funzionato da ascensore sociale; e senza un costante ricambio (almeno in parte) delle classi dirigenti, è difficile che una società rimanga dinamica. In una società con pochi laureati, insomma, le posizioni eminenti rimangono sempre a disposizione dei figli di quanti oggi si trovano ai piani alti della società.Per tornare a crescere c’è allora bisogno di maggiore innovazione nell’accademia, che deve coniugarsi con le esigenze del mondo del lavoro. Mentre nelle società più dinamiche è forte la consapevolezza che l’università di ieri è defunta e tutto deve cambiare (nelle forme e nei contenuti), da noi si continua a proteggere un sistema baronale che ha fatto il suo tempo e che genera più problemi che soluzioni. La già citata demonizzazione degli atenei on line –che offrono opportunità a decine di migliaia di lavoratori e stanno innovando in profondità la didattica – è forse la manifestazione più evidente dello stallo in cui si trova un’università restia ad accettare le sfide del mondo contemporaneo
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