La Provincia, intesa come istituzione, è per me un piatto ricco e mi ci ficco.
Spiego l’equazione, ricordando che pesco spesso nelle mie molteplici esperienze per parlare di politica e non viceversa. È un metodo, non un esercizio di narcisismo.
Comincerò col dire che se mio padre era lecchese al 100% ,mia madre era comasca a 18 carati. E ancora : sono stato, dopo regolare concorso, responsabile della comunicazione e della presidenza a villa Saporiti, sede della Provincia di Como.
Un ufficio con affreschi e quadri di valore e una vista sul lago che avrebbe incantato, ante litteram, le star americane. Per dire, in sostanza, che in quella stagione la Provincia aveva compiti definiti, copiose risorse e governava 247 comuni e la voce lecchese era garantita dal presidente Giovanni Fiamminghi, romagnolo di nascita e malgratese di adozione.
Prima di lui a compensare l’egemonia comasca alla guida dell’ente approdó Aldo Rossi, pneumologo di fama e democristiano sopratutto della scuderia morotea. Intrapresa un’altra strada professionale, mi sono ritrovato a promuovere e a commentare l’iter per l’autonomia culminato con la nascita della Provincia di Lecco.
Dopo l’indipendenza delle associazioni economiche e sociali, raggiunta molti lustri prima, era tempo che si forgiasse un abito istituzionale da principessa e non più da damigella o da cenerentola.
Penso basti per far capire come la questione sia la mia tazza del tè, del caffè, ma non della camomilla.
Il sindaco di Como ha acceso la miccia nei giorni scorsi vagheggiando la riunificazione istituzionale dei due rami. Tesi rispettabile, ma non condivisibile e carente di fondamenti e fondamentali.
Un pensiero in libertà nella mestizia di novembre.
In gioco non c’è una partita di Monopoli, bensì la storia e il futuro di due territori non propriamente gemelli. Al massimo cuginastri.
Ora va detto che la provincia è un ente precario, vittima di Renzi e soci che l’hanno relegata a un limbo dal quale si uscirà solo con il ripristino dell’antico ente e il ritorno all’elezione diretta del presidente.
Una provincia nè carne, nè pesce, costosa e non strutturata per i compiti e le sfide alla quale sarebbe chiamata.
In questo contesto proprio le provincie dovrebbero rinascere mantenendo la loro identità e il loro radicamento nei territori.
Siccome non intravedo unioni esaltanti e partecipate ma solo fusioni a freddo credo che la strada maestra sia quella di dare corpo e vita a una macroarea che comprenda Como, Lecco e Sondrio sulla quale le tre provincie potrebbero operare con strategie mirate nei campi delle infrastrutture, dei trasporti, della cultura, della formazione e dell’welfare, nonché dello sviluppo turistico e economico.
Sempre attingendo agli alfabeti della Prima repubblica, ricordo che fino alla caduta dei partiti storici, la circoscrizione che inviava a Roma i deputati (i senatori erano eletti in appositi collegi) comprendeva Lecco, Como, Sondrio, Varese e il plotone, carico di preferenze e composto anche da venti parlamentari, spesso si muoveva compatto e portava a casa provvedimenti e risorse che senza un’azione di lobby geopolitica, ce li saremmo sognati.
Ecco io punterei su una sorta di consultazione permanente tra rappresentanti istituzionali e soggetti attivi nei vari segmenti della società per elaborare un’agenda di impegni e priorità da aggiornare e spuntare cammin facendo.
A proposito di priorità e al di là delle estemporanee e tremole idee sul destino delle due terre lariane, davvero non vedo come con macigni istituzionali come l’autonomia differenziata e il premierato, possa trovare eco un sassolino gettato nel lago gelato dell’inverno.
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