Si può gareggiare dentro una tragedia? Il punto di Pecco Bagnaia, campione di Moto GP, non ammette mediazioni. Per lui no, non si corre, nemmeno per un Mondiale, se in gioco ci sono l’etica e la dignità di un paese devastato. Parla della tappa di Valencia, non distante dalle zone della Spagna martoriate dall’ennesima calamità. L’ultimo Gran Premio del 2024 è in calendario a Cheste, pista che dista una ventina di chilometri da Valencia, nei giorni tra il 15 e il 17 novembre. «Non credo sia corretto correre a Valencia. Spero davvero che tengano conto che, a livello etico, vista la situazione, non è il momento adatto», ha dichiarato il pilota due volte campione del mondo, rispondendo ai giornalisti in Malesia. Ha aggiunto poi: «A costo di perdere il titolo, non sono disposto a correre a Valencia». Ed eccolo, Bagnaia, scavalcare in un colpo solo record, traguardi e obiettivi che – su pista – farebbero tremare chiunque.
Il rivale Jorge Martin, spagnolo e attuale leader del mondiale, ha reagito con cautela. «Per ora corro come se ci fosse un’altra gara, che sia a Valencia o altrove. Voglio vincere, e se ne avrò l’opportunità, lo farò». Due posizioni, due facce della stessa competizione: da un lato il dovere di correre, di non rinunciare, dall’altro il rispetto per la vita fuori dai circuiti. Ed è proprio la posizione di Bagnaia che sorprende, e colpisce. Non perché provenga da un campione – anche se nel mondo dei motori il coraggio e la determinazione non mancano mai – ma perché riecheggia una di quelle rare scelte che sfidano il pensiero comune, che lo mettono sotto accusa senza mezzi termini.
Ci si è sempre chiesti se sia giusto gareggiare quando la morte aleggia sui luoghi delle competizioni. E l’industria dello sport, la fabbrica dell’intrattenimento, ha sempre risposto di sì, perché “the show must go on”. Sia che si tratti di un incidente come quello di Imola, dove Ayrton Senna e Roland Ratzenberger persero la vita nel 1994, sia che si parli di atti di terrore, come durante i Giochi di Monaco del 1972, quando undici atleti israeliani furono uccisi da un commando palestinese. La morte diventa scenografia, il dolore uno sfondo che gli organizzatori preferiscono ignorare. “Che lo spettacolo vada avanti”, dicono, senza mai spiegare davvero perché.
Di fronte a una tragedia, si insiste che la vita deve continuare, che anche le corse, le partite, i gran premi hanno una loro funzione di riscatto, di superamento del dolore. Ma in verità, si sa bene che questo è solo un modo per garantire che l’ingranaggio non si fermi, che tutto resti al suo posto, senza intoppi.
Al Colosseo circo romano i gladiatori lottavano fino alla morte per il diletto della folla; e dopo che uno di loro cadeva, ecco pronti i buffoni a distrarre il pubblico. E anche nel circo, prima che venisse resa obbligatoria la rete, quando gli acrobati cadevano entravano in pista i clown. The show must go on. Ma quello che spesso si dimentica, è che anche lo sport ha il dovere di fermarsi, di concedere una pausa in nome dell’umanità. Esiste un’etica sportiva, o dovrebbe esistere, che non può essere sacrificata in nome della visibilità o del guadagno.
Come negli Stati Uniti, quando si scelse di sospendere le competizioni dopo l’11 settembre, o dopo gli attentati di Parigi del 2015. Le pause silenziose, quelle che interrompono la corsa e costringono tutti a riflettere, sono momenti di dignità collettiva, che portano la realtà a una dimensione più umana, lontana dai riflettori. Non sono solo un omaggio ai morti, ma anche un modo per ricordare che siamo tutti fragili, che la competizione, in quei frangenti, può attendere, che nella vita c’è qualcosa di più importante, di più sacro di un alloro.
La risposta di Bagnaia, netta, ferma, con la stessa determinazione con cui infila una curva durante una competizione, non è solo quella di un campione, ma di un uomo che – in una dichiarazione che potrebbe costargli il titolo – preferisce mettere in primo piano il valore di ogni vita, il rispetto per chi soffre, per una città che non può essere solo un altro sfondo decorativo. Per lui, ogni curva, ogni rischio preso in sella, sembrano trasformarsi nella lezione di chi sa che a volte serve anche fermarsi. La vittoria, in questo caso, è già nelle sue parole, non nel trofeo che potrebbe alzare. E in un mondo dove tutto scorre troppo in fretta, persino il tempo di chi va a 300 km orari in pista, ci vuole una grande forza per dire no, oggi non si corre.
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