Tra libri per donne e amiche geniali

Vladimir Nabokov - che era mezzo matto, ma che soprattutto era un genio - non ha mai creduto ai massimi sistemi.

E infatti ha passato la vita a irridere i critici letterari, che dileggiava con il termine di “criticonzoli”, le loro analisi denotative e connotative, la loro ricerca di messaggi edificanti, di istanze sociali, di contenuti etici ed esemplari, ribadendo che c’è un’unica cosa che segnala la presenza di un capolavoro. Ed è una sensazione fisica, tattile, epidermica, che niente ha a che fare con le elucubrazioni cerebrali dei criticonzoli di cui sopra: “Benché si legga con la mente, la sede del piacere artistico è tra le scapole. Quel piccolo brivido che sentiamo lì dietro è certamente la più alta forma di emozione che l’umanità abbia raggiunto sviluppando la pura arte e la pura scienza. Veneriamo dunque la spina dorsale e i suoi fremiti”.

E aveva ragione. Anche se non bisogna dimenticare che se una persona è intelligente prova questa sensazione leggendo “Fuoco pallido” o “Invito a una dacapitazione”, se invece non è ancora arrivata alla fase evolutiva del pollice opponibile rabbrividisce per Fabio Volo, Piccolo e Desiati. E questa riflessione profondissima Nabokov la proponeva sempre ai suoi (fortunati) studenti durante le memorabili lezioni dedicate ai maestri della letteratura: “Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro: le grandi idee sono risciacquatura di piatti”.

Questo aneddoto è tornato in mente dopo che il “New York Times” ha incoronato “L’amica geniale” di Elena Ferrante come il libro più importante del primo quarto del nuovo secolo. Ora, fare delle classifiche è sempre sbagliato - meglio Tolstoj o Dostoevskij? Meglio Battisti o De André? Meglio Cruijff o Beckenbauer? - ma questa uscita dell’autorevole quotidiano ha ispirato negli ultimi giorni una serie di interessanti considerazioni più antropologiche che letterarie sullo stato dell’editoria. E cioè che gli americani sono sempre gli stessi: appena gli si offre l’occasione di affibbiarci l’etichetta di italiani baffo nero mandolino pittoreschi e spaghettari perdono la brocca. Era successo con Fellini per “La dolce vita”, la cartolina della Roma degli anni d’oro eccetera, e per “Amarcord”, la cartolina dell’Italietta provinciale, fascista e macchettistica (al netto che si trattasse di due opere maestre, soprattutto la seconda), poi l’hanno rifatto con il sopravvalutatissimo “La vita è bella” di Benigni, ennesimo stereotipo dell’italiano buffonesco, ma geniale e di gran cuore (mentre il vero capolavoro comico e grottesco sui lager è “Train de vie” di Mihaileanu) e hanno concluso con “La grande bellezza”, film a tratti banale, a tratti irritante, ma per lunghi momenti oggettivamente straordinario, vissuto come un Fellini dei tempi nostri. Insomma, passano gli anni, ma con gli americani siamo sempre lì.

Lo stesso metodo che sembra abbiano seguito per premiare “L’amica geniale”, del quale, aldilà del reale valore del testo, hanno apprezzato il melodramma, l’ambientazione meridionale (molto pittoresca) e soprattutto la dimensione totalmente femminile. E qui siamo arrivati al punto. Essere donna è ormai l’unica caratteristica editoriale che consenta di sopravvivere. Basta prendere le classifiche più recenti: le donne occupano tutto il podio e larga parte dei primi dieci posti. Sono tutti libri scritti da donne, letti da donne, che parlano di donne e che si occupano di temi di donne. Il contenuto non conta, lo stile e la struttura, così cari a Nabokov, figurarsi e quindi che il romanzo sia bello (raramente), mediocre (la maggior parte) o ridicolo (un numero infinito) è del tutto irrilevante. L’importante è che parli di lei e affronti temi altisonanti di affrancamento, rivalsa e orgoglio rosa e che proponga messaggi universali, retorica femminile e femminista e soprattutto grandi, grandissime idee. La famosa risciacquatura di piatti di Nabokov, appunto.

Un ridicolo mainstream non solo italiano, naturalmente, che spadroneggia da più di un ventennio, che ignora che la letteratura - proprio come il diavolo - sta nei dettagli e che nei giorni scorsi ha ispirato un corsivo acuto e divertentissimo pubblicato da “Il Foglio”, secondo il quale ormai le scrittrici sono suddivise in tre sole categorie di riferimento, che possono essere ribattezzate nel seguente modo.

Prima categoria: “Io sono Malala”. Ispirato alla celebre attivista e blogger pakistana premio Nobel per la pace, questo faldone raccoglie tutte le romanziere votate all’impegno civile, alla battaglia per la difesa dei diritti inviolabili delle donne, per l’affrancamento dal modello patriarcale ancora dominante in Occidente, e pure in Oriente, che passano da talk show a talk show a catechizzare con il ditino alzato le umane genti sulla centralità della letteratura impegnata, democratica e, naturalmente, antifascista.

Seconda categoria: “Io sono malata”. Qui siamo invece all’ostentazione morbosa e lacrimevole e soprattutto piagnonista dei più svariati handicap fisici o, meglio ancora, psichici di donne di ogni genere e modello: tutta una sequela di complessate, disadattate, depresse, bipolari, disordinate alimentari e umorali, legioni e plotoni di disperate e derelitte e umiliate e offese e scappate di casa che in confronto le turbe di Virginia Woolf erano uno scherzo, ma, insomma, almeno lei era l’inarrivabile Virginia Woolf.

Terza categoria: “Io sono maiala”. Qui assistiamo infine al trionfo dell’ammicco e del pruriginoso, con svariate sfumature di grigio e del resto dei colori dell’iride, tra milf dionisiache, cougar assatanate, mogli in vacanza e amanti in città, Temptation Island che fa sfracelli in tv (perché anche tra chi non legge la situazione è grave), soldatesse alle manovre militari, toy boy, triangoli e vecchie seduttrici in disarmo, che è poi lo stesso plot del celebre “Chéri” di Colette, che però con la sua pennetta fatata aveva regalato dignità letteraria a tutta quella spazzatura.

Spazzatura che, comunque, sembra l’unica cosa in grado di catturare l’interesse degli ultimi sparuti uomini ancora dediti alla lettura. Chissà perché…

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