Tornare alle origini, l’eterna illusione

Eraclito l’oscuro sosteneva che fosse impossibile bagnarsi per due volte nello stesso fiume. Il fiume scorre di continuo e anche noi cambiamo di continuo. Ogni esperienza è unica e irripetibile e dopo un attimo è già diventata passato.

Tutto scorre, secondo il grande presocratico, tutto sfugge dalle mani, il nostro rapporto con l’esistenza è costituito da migliaia di atti e sensazioni non reiterabili e chiunque si illuda di poterlo fare - di tornare cioè al passato - è votato al più clamoroso dei fallimenti, perché nel giro di un secondo tutto è già mutato. Anche se sembra che nulla lo sia. Il tempo, il tempo perduto, può essere solo ricordato, entrando nel regno della memoria e, forse, del sogno. Intuizione sulla quale, tanti secoli dopo il filosofo greco, un gigante come Proust nella “Recherche” - sì, quel capolavoro che secondo tutti quelli che non l’hanno mai letto è pesante e noioso - ha costruito una delle sfide più ambiziose della storia della letteratura. In fondo, si vive solo “dopo”, nel ricordo, e si scrive solo “dopo”, nella rievocazione di vite scomparse per sempre. E che il tentativo, molto umano e quindi molto patetico, di riandare alle origini sia catastrofico lo aveva colto, in tutt’altro ambito e con lucida ferocia, anche Marx - non a caso cultore del materialismo ellenico, tanto da laurearsi con una tesi su Democrito ed Epicuro - quando coniò il formidabile aforisma sulla storia che si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.

Ora, queste sono osservazioni di mero buon senso per le quali non è che serva essere un intellettuale della Scuola di Francoforte, basta aver frequentato un buon liceo o, meglio ancora, avere fatto tesoro delle esperienze della vita di tutti i giorni. E quindi, proprio per questi motivi, possono risultare astruse solo ai nostri autorevoli politici e ai nostri sedicenti statisti, che vivono in una bolla autoreferenziale e che esibiscono, soprattutto di questi tempi, un livello culturale che oscilla tra la terza media (passata a fatica) e la terza superiore (con tre debiti l’anno). Ma questa non è ovviamente una notizia.

Il tema del ritorno alle origini si è riaffacciato all’attualità grazie ai timori, ai tremori e alle dolorose contorsioni del Movimento 5 Stelle, con tanto di parricidio - altro tema classico tra i classici - di Conte nei confronti di Grillo e a tutta la riflessione, per certi versi drammatica, per altri decisamente comica, di come fare per far tornare tutto quel mondo alla sua purezza primigenia, all’entusiasmo degli esordi, alla rivoluzione copernicana della politica italiana, che si basava su una pietra d’angolo, un assioma, una rocca di Gibilterra inscalfibile e piuccheperfetta: la mitologica etica del “vaffanculo”.

Al netto del livello penoso del dibattito nella repubblica delle banane - di destra, di centro e di sinistra - questa crisi è davvero interessante perché è psicologica, è antropologica, è esistenziale. A un certo punto, quando le cose vanno male e sono destinate ad andare sempre peggio, perché la vita adulta è dura, schifosa e piena di fango e di liquami, quando l’attimo fuggente è scappato via e nessuno è più capace di riprenderlo, l’istinto umano è pensare che si debba ricominciare a fare come una volta, quando si era giovani e puliti e innocenti - e moralisti - e pieni di progetti e con un immane desiderio di recuperare la nostra vera natura, svilita e lordata dagli errori e dai compromessi e di mettere così le cose a posto. Ma non c’è più niente da mettere a posto, ci ha già pensato il tempo, con la sua onda nera e limacciosa, a sistemare le cose per sempre. E’ un po’ come succede alle coppie in crisi: ci si parla in terapia, si piange assieme, ci si promette di ricominciare ad amarsi come prima, anzi, forse anche più di prima. Certo. Dopo un mese, dormi sul divano. Dopo due, vai dal divorzista.

E allora fanno veramente tenerezza questi eroi del reducismo, dell’orfanismo pentastellato, che agitano ancora la rievocazione vagamente cheguevarista dell’uno vale uno, della sconfitta della povertà, del Parlamento scatola di sardine, della democrazia diretta, digitale e universale e ci si rende conto di quanto quegli slogan risentiti oggi facciano pena, facciano venire da piangere, anzi, facciano venire da ridere, facciano morire dalle risate, dopo averli visti, i rivoluzionari grillini - in questo identici a quelli di sinistra e di destra, che poi hanno fatto tutti quanti dei carrieroni - infilarsi nelle auto blu, nei ministeri, nelle municipalizzate, nelle controllate, nelle partecipate, nel mondo dei privilegi e del sinallagma, insomma, nell’età adulta, e rivederli adesso, una volta perso tutto, cercare affannosamente di rifarsi una verginità. Vasto programma. E’ la celebre teoria del cappuccino (o del secondo principio della termodinamica): farlo è facilissimo, basta versare un po’ di latte e un po’ di caffè, ma tornare indietro è impossibile, perché nessuno può separare il caffè dal latte. Pure questa è un’esperienza irripetibile.

Quanti personaggi storici - altri che Toninelli o Di Battista - sono cascati in quella trappola. Anche Napoleone, una volta sconfitto sul campo e imprigionato all’Elba, aveva vagheggiato un (falso) ritorno ai valori repubblicani, dai quali era partito e che poi aveva tradito diventando prima re e poi imperatore. E infatti non ci sarebbe mai stata un’altra Austerlitz, ma solo una Waterloo. E anche Mussolini alla fine della sua parabola aveva scimmiottato un ripristino dei valori di “sinistra” del primo fascismo urbano – sinistra soreliana e insurrezionalista, attenti, non certo scientifica e marxista – grazie alla Repubblica sociale. Un tentativo goffo e grottesco, che era servito solo a mandare a morire un po’ di ventenni invasati senza che lui si rendesse conto che dietro l’angolo non c’era una nuova San Sepolcro, ma i lampioni di piazzale Loreto.

Ma anche qui ha ragione Marx: quella di Salò è una tragedia, quella dei grillini una farsa.

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