Il giorno dopo il voto del Parlamento europeo sulla guerra in Ucraina, la politica italiana è costretta a guardarsi in casa e a considerare le proprie contraddizioni. Che non riguardano un tema generico di politica estera, buono giusto per un convegno di esperti, ma un argomento cruciale di schieramento di fronte ad una guerra in cui l’Occidente – e noi con esso - sta da una parte, quella dell’aggredito ucraino, e la Russia e i suoi alleati dall’altro.
Di fronte a questo, le due coalizioni di maggioranza e di governo sono uscite profondamente divise, se non proprio a pezzi. Potenzialmente, si tratta di un episodio che accende sotto il centrodestra e il centrosinistra la miccia di un’esplosione prossima ventura.
Ricordiamo che il voto è stato più che frammentato anche se poi nascosto da un velo di ipocrisia: infatti la richiesta di revocare le restrizioni all’Ucraina nella possibilità di usare le armi occidentali anche in territorio russo (paragrafo 8 della risoluzione) è stata bocciata dalla gran parte degli italiani di destra e di sinistra; ma l’insieme della risoluzione che, si badi bene, contiene l’articolo 8, è stata a sua volta sostenuta dalla gran parte degli italiani di destra e di sinistra. Quindi non è chiarissimo come gli Italiani del Parlamento europeo, di maggioranza e di opposizione, di sinistra e di destra, alleati della von der Leyen o suoi oppositori, la pensino sul fatto che Zelensky possa ordinare di bombardare i russi con i missili e i droni che (anche noi) gli forniamo da quando è scoppiata la guerra. Non è poca cosa, e non c’è da meravigliarsi nel leggere i commenti sarcastici degli altri gruppi, soprattutto da parte di popolari, socialisti e liberali che hanno voluto fortemente una risoluzione la cui approvazione è tanto più significativa dopo il flop della discussione tra i governi.
Chi ha detto no a tutto, no all’articolo 8 e no alla risoluzione nel suo complesso sono stati – senza suscitare sorpresa alcuna – i leghisti di Matteo Salvini e i cinquestelle di Giuseppe Conte. C’è già chi parla di ritorno di fiamma tra due vecchi alleati che poi se le sono date di santa ragione, e continuano a farlo, per esempio, sul processo a Salvini per la vicenda Open Arms. Sta di fatto che quando si tratta della guerra russa all’Ucraina Salvini e Conte si rimettono in parallelo. L’uno perché poi può volare a Budapest a farsi elogiare da Orban (“Matteo, il più coraggioso patriota d’Europa”), l’altro perché non perde occasione per scavalcare a sinistra il partito democratico sperando così di riempire le esangui casse elettorali del movimento. In ogni caso, Salvini ha spaccato il centrodestra; Conte ha diviso il cosiddetto “campo largo” che poi tanto “largo” di volta in volta tale non è.
Terzo elemento, il Pd. I democratici usano dire che le loro “differenze” sono “la loro ricchezza”. Sarà anche così ma nel voto europeo i democratici sono riusciti a trovare ben tre posizioni diverse tra 21 parlamentari. La segretaria Schlein si era raccomandata di bocciare il paragrafo 8 (ricordiamolo: quello che permette a Kiev di bombardare i russi con le nostre armi). L’hanno seguita in dieci: il capogruppo Zingaretti e i sostenitori della segreteria. In due invece le hanno apertamente disobbedito: Pina Picierno e la professoressa Gualmini che hanno votato sì. In sette hanno preferito non votare pur essendo presenti: sono i riformisti di Bonaccini. Erano a favore del paragrafo 8 ma per “amore della comunità”, insomma per non mandare la segretaria in minoranza nel gruppo parlamentare, hanno scelto di volatilizzarsi.
Una volta che si erano divisi in questo triplice modo, i democratici si sono ricompattati votando insieme l’intera risoluzione (ma con il paragrafo 8 dentro). Tranne due indipendenti che si sono astenuti coerentemente con la loro posizione di pacifismo radicale: Cecilia Strada e Marco Tarquinio.
Più che coalizioni o partiti, sembrano dei puzzle.
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