Nelle prossime ore il Presidente Biden potrebbe annunciare l’ennesima mossa degli Stati Uniti nella guerra fredda commerciale in corso con la Cina: un drastico aumento dei dazi sulle automobili elettriche importate da Pechino, dazi che addirittura passerebbero dal 25% al 100% secondo le anticipazioni, oltre a una nuova stretta su semiconduttori, componenti per impianti solari e forniture mediche “made in China”. Tra gli obiettivi, spiegano dall’Amministrazione democratica, c’è il contrasto alla capacità produttiva cinese in eccesso, la protezione delle aziende americane dalla concorrenza di prodotti a prezzi troppo bassi e il tentativo di compensare i generosi sostegni pubblici elargiti da Pechino alle proprie industrie.
In attesa di una probabile contromossa dell’ex Impero celeste, non cambia il contesto generale di questa fase di intensa conflittualità economica. Stiamo assistendo infatti a un capovolgimento di fronte a livello mondiale nel settore automobilistico, cioè di quella che è stata a lungo la più importante industria metalmeccanica in tanti Paesi occidentali, tra cui l’Italia. Nell’arco di un ventennio, nell’automotive, si è compiuta una trasformazione radicale del ruolo giocato dalla Cina: alla fine dello scorso millennio il colosso asiatico era il più promettente mercato di sbocco per i produttori occidentali, oggi è soprattutto il più temuto concorrente degli stessi. Nel 2000, quando in Italia si immatricolavano circa due milioni e mezzo di vetture, in Cina se ne vendevano appena un milione. Una volta deflagrata la crisi finanziaria in Occidente, la Cina è diventata il primo mercato del pianeta, superando nel 2009 gli Stati Uniti con 9 milioni di vetture immatricolate. L’anno scorso Pechino secondo alcune stime avrebbe raggiunto quota 25 milioni rispetto a 16 milioni negli Stati Uniti e 1,6 milioni in Italia. La Cina agli occhi dei produttori occidentali è diventata dunque nel tempo un nuovo promettente luna-park, un treno su cui salire per poi intraprendere però un percorso simile a quello delle montagne russe. L’americana GM, per esempio, negli anni 90 era il più grande produttore d’auto del pianeta e nel 1997 fu tra le prime aziende a sbarcare in Cina con una joint-venture alla pari con un gruppo locale, come imponeva la legge della Repubblica Popolare. Sono seguiti anni di successi e di rapida ascesa nei concessionari, fino al record di 4 milioni di vetture vendute ai clienti cinesi nel 2017. A quel punto, però, è cominciata la discesa mozzafiato, fino agli appena 2,1 milioni di veicoli venduti l’anno scorso. I produttori tedeschi, anch’essi presenti in forze nel Paese, ancora si ritengono destinati a una salita senza fine sulla stessa giostra. Da una parte ostentano fiducia grazie alla qualità che sono in grado di offrire – affermano – agli utenti cinesi; dall’altra temono che qualsiasi scelta commerciale restrittiva da parte dell’Unione europea possa causare ritorsioni ai danni di gruppi che ormai hanno fatto della Cina perfino la base produttiva per auto da vendere in Europa (come accadrà col nuovo modello in uscita dell’iconica Mini della tedesca BMW). Eppure dai dati più recenti emerge qualche scricchiolio per i big di Berlino. Si prenda Volkswagen, che con i suoi 33 stabilimenti produttivi nel Paese ha lanciato la strategia “in Cina, per la Cina”; nel 2019 il gruppo ha venduto 4,23 milioni di vetture nel Paese asiatico, l’anno scorso invece un milione in meno, complice il boom dei modelli elettrici delle aziende native.
In definitiva, la Repubblica Popolare negli scorsi anni ha attirato le grandi aziende occidentali ma adesso sembra in grado – se non addirittura desiderosa – di farne a meno. Come è stato possibile? Prima ci sono state le joint-venture obbligatorie, attraverso le quali carpire segreti e know-how delle Case occidentali; sono seguite le prime acquisizioni di gruppi europei da parte di aziende cinesi, come avvenuto con MG nel 2005 o Volvo nel 2010, mosse utili anche a conoscere meglio i nostri mercati; quindi Pechino ha messo in campo una politica industriale lungimirante, oltre che generosissima, per creare campioni nazionali soprattutto nell’elettrico, riuscendo oggi a proporre sul mercato vetture di buon livello a prezzi molto contenuti, in grado di spiazzare anche i vecchi “primi della classe”.
Dalla eventuale scelta di Biden di incrementare i dazi arriverebbero dunque due segnali. Il primo è che negli Stati Uniti, più che in Europa, è diffusa la consapevolezza che alle aziende dell’auto non è sufficiente mantenere un piede nel mercato cinese per ottenere una concorrenza alla pari. Il secondo segnale è politico: con l’approssimarsi delle elezioni, i Democratici – come i Repubblicani, d’altronde – si mostrano più attenti alle ansie di lavoratori ed elettori, intimoriti dalle conseguenze sociali ed economiche della crescente forza cinese. Nelle prossime settimane potremmo assistere a una dinamica simile in Europa.
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