Il nuovo Patto di stabilità è stato approvato dal Parlamento europeo con 359 voti favorevoli, 166 contrari e 61 astensioni. I deputati italiani dei due schieramenti si sono astenuti. Solo tre hanno votato a favore, più Sandro Gozi che però era stato eletto in Francia.
Come non ha mancato di far notare con ironia il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, per una volta la politica italiana si è unita. La vocazione trasversale al ricorso al debito trova nel nuovo Patto un ostacolo. Ai politici di qualsiasi colore è stato reso più difficile l’accesso ai fondi pubblici con i quali dar soddisfazione ai propri elettori. Se consideriamo che Paesi come l’Italia, con un debito eccessivo, saranno tenuti a ridurlo in media dell’1% all’anno e il disavanzo durante i periodi di crescita, per creare una riserva di spesa, dovrà scendere all’1,5%, ne consegue che gli spazi di intervento si riducono.
Il riferimento è soprattutto all’avanzo primario netto, cioè alla spesa pubblica al netto degli interessi sul debito. Sono costi che toccano la carne viva dello stato sociale dalla sanità al lavoro alla scuola e che i cittadini sentono come elemento portante del vivere sociale. È qui che si crea il senso di appartenenza e la coesione sociale di uno Stato. Va pur detto che, rispetto al vecchio Patto di stabilità e di crescita, si è dato più spazio alla flessibilità e quindi alle specificità dei singoli Stati.Nel calcolare il deficit non rientrano le voci dei prestiti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e neppure quelle sugli interessi che in ragione degli alti tassi arriveranno per i prossimi anni a circa cento miliardi di euro. Rimane il fatto che la cosiddetta “golden rule” per debito finalizzato a investimenti produttivi è stata negata dalla maggioranza degli Stati membri. Questo vuol dire che si preferisce la tenuta dei conti rispetto ad un ruolo attivo dello Stato nell’economia.
La proposta iniziale della Commissione era molto più elastica e lasciava margini di contrattazione fra gli Stati e Bruxelles nel distinguere il debito buono che crea opportunità di crescita e quello meramente parassitario. Alla fine il tutto si è poi deciso sui tavoli dei ministri delle Finanze francese e tedesco dai quali il ministro Giorgetti era stato escluso. È passata la linea dell’austerità soffice alla quale il ministro italiano avrebbe potuto opporre il veto. Ma a quel punto sarebbe rimasto in vigore il vecchio Patto di stabilità che tutti gli Stati membri a denti stretti avrebbero anche potuto sopportare tranne due: quelli con maggior debito, Italia e Grecia. Il ministro Giorgetti è considerato da tutti, anche dagli avversari e dai colleghi stranieri, una persona competente e affidabile, ma il debito italiano è talmente grande da annullare il potere contrattuale del Paese.
L’Italia è ricattabile perché debole nei suoi conti pubblici. Anche se l’export nel 2023 è cresciuto di circa il 7% e garantisce un surplus, rimane il problema della crescita. Solo con un indice di sviluppo elevato, e quindi un Pil in costante aumento, è possibile ridurre l’incidenza del debito. A saldi invariati, per raccogliere le risorse necessarie agli investimenti di capitale occorre limare la spesa corrente. L’Italia non è sola.
La Germania vive con difficoltà il passaggio di transizione verso un’economia sostenibile e tecnologicamente avanzata e il taglio ai sussidi pubblici è al centro del dibattito politico. I liberali si attengono alla regola di niente debito aggiuntivo. Così, posti di fronte all’alternativa, investimenti produttivi o debito, il ministro delle Finanze tedesco sceglie gli investimenti e li paga coi tagli alla spesa sociale. Dopo le elezioni, anche in Italia i partiti dovranno misurarsi con la nuova realtà.
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