Si chiude un’epoca, quella del frontaliere “tax free”. Berna e Roma si sono accordate per porre fine all’anomalia che ha fin qui consentito a 60mila lavoratori di Como, Sondrio e Varese di dribblare l’ingordo Fisco italiano. Come molte altre fregature anche a questa hanno dato un nome inglese, lo splitting, vale a dire la divisione in due parti del reddito su cui imporre le tasse. Quella più consistente resterà in Svizzera. In Ticino sono contenti perché la loro quota passa dal 61 al 71 per cento. Considerato che il Fisco svizzero prevede aliquote bassissime rispetto alle nostre, su questo fronte la differenza per i frontalieri sarà modesta. Secondo indiscrezioni cambia tutto, invece, sul terzo restante dell’imponibile, che sarà assoggettato alle aliquote italiane: le tasse saranno versate direttamente a Roma. Un cambiamento graduale, assicura il governo, che promette anche di compensare i Comuni di frontiera per l’improvvisa perdita dei cosiddetti “ristorni”.
Credere alle promesse dei nostri ministri dell’economia è difficile. Si tratta quindi di capire quanto durerà il processo di “normalizzazione” fiscale dei lavoratori italiani in Svizzera. Che, diciamocela tutta, da molti punti di vista rappresenta un’operazione di equità. Si pensi che chi lavora in Ticino e abita in Italia scarica il costo della sua assistenza sanitaria, e quella dei familiari, sugli altri lavoratori connazionali. Ciò che vale per medico di base e ospedali vale per le scuole, le strade, la polizia, la giustizia, servizio pubblico e via elencando. Come ogni anno ci ricorda la classifica farlocca del Sole 24 Ore sui paesi più poveri d’Italia, secondo il Fisco italiano Valrezzo e limitrofi risultano infatti abitati da nullatenenti. Che non sono affatto tali e godono dei servizi pubblici senza contribuire a mantenerli. Ma le ragioni di equità sono anche altre, forse più profonde e probabilmente non approfondite a sufficienza da certa parte dell’opinione pubblica elvetica, quella sempre più insofferente ai nostri connazionali all’estero. Con la tassazione, sia pure parziale e graduale, del lavoro italiano oltre confine perderà potenza un doppio fenomeno di “dumping”. Per cominciare la concorrenza, che qualcuno definisce sleale, tra persone. Se gli italiani si accontentano di stipendi che i lavoratori ticinesi considerano da fame è perché, risparmiati come sono dal Fisco italiano, il loro stipendio netto resta comunque allettante. Con il doppio regime di tassazione, questo stato di cose potrebbe cambiare. In Ticino, dunque, rischiano presto di dover alzare gli stipendi anche ai frontalieri, che con il passar degli anni si erano accontentati di compensi sempre più bassi. In questo modo dovrebbe anche mitigarsi la concorrenza scorretta delle imprese svizzere a quelle italiane di confine, che hanno sin qui goduto non solo di un Fisco assai meno avido, ma anche del fatto che una buona fetta dell’assistenza ai loro dipendenti comaschi, sondriesi e varesini la pagava l’Italia, senza rivalersene.
Se aggiungiamo questo la paurosa perdita di competitività causata dal nuovo cambio franco-euro, viene da domandarsi se anziché rallegrarsi di aver trattenuto ai frontalieri il 10 per cento in più, i ticinesi non farebbero bene a chiedersi se stanno tagliando il ramo sul quale siedono: il rischio è che perdano tutto il manifatturiero, sorto dal nulla in 15 anni. Tornare alle banche, di questi tempi, non è il massimo.
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