Il crollo del regime di Bashar al-Assad è stato troppo rapido e improvviso per poterlo già valutare appieno. È chiaro che ha molto influito la situazione di difficoltà dei suoi tre alleati principali: l’Iran a rischio guerra con Israele (e gli Usa), l’Hezbollah libanese mutilato dallo scontro con Israele, la Russia stressata dalla guerra in Ucraina.
Altrettanto evidente è che la calata dal Nord di jihadisti e milizie filo-turche è stata troppo ben organizzata (basta pensare al tempismo dell’attacco), informata (sulla reale combattività dell’esercito siriano quando non appoggiato dai russi) e armata (divise nuove, armi lucide e così via) per non avere ispiratori e strateghi esterni alla Siria. E qui vien da pensare alla Turchia in primo luogo. Però ci sono anche altri fattori che si chiariranno col tempo. La Russia non è parsa prendersela troppo: qualche bombardamento sulle colonne di Hayat Tahrir al-Shams nelle prime ore, e poi nulla. Lo stesso si può dire per gli iraniani, che non possono permettersi di aggredire Israele (che intanto, per non sbagliare, bombarda Damasco), ma avrebbero potuto provare ad aiutare Assad. E gli Usa? Da Washington molto silenzio, ma intanto i “ loro” curdi hanno occupato Deir Ezzor, centro di grande importanza strategica sull’Eufrate, al confine con l’Iraq.
L’unica cosa certa, per ora, è la balcanizzazione della Siria, secondo le linee tracciate dalle diverse avanzate. Il grande Nord di Idlib, Alepppo e Homs è ora sotto il controllo dei jihadisti di Hayat Tahrir al-Shams guidati da Al Julani. Gli stessi, peraltro, stanno raggiungendo anche le zone sensibili per la Russia: domenica sera 8 dicembre erano entrati a Tartus, dove c’è la grande base navale russa sul Mediterraneo, ed erano prossimi alla base aerea di Khmeimin. Ancora più a Nord, presso il confine, sono disposte le milizie dai mille nomi (ora Esercito nazionale siriano) finanziate dalla Turchia. A Nord-Est la grande area curda. Accanto una piccola porzione di territorio ancora gestita dall’Isis. A Est la “zona di esclusione” controllata dalle truppe Usa. A Sud, a partire dai centri di Dar’a e Suweyda, le formazioni dell’ex Esercito libero siriano innervate soprattutto dai drusi. Per non parlare delle alture del Golan, territorio siriano dal 1967 occupato da Israele.
In queste ore Recep Tayyep Erdogan, che palesemente gongola per la piega presa dagli eventi, ha più volte invitato i vincitori a trovare un modo per governare insieme. Ovvero per conservare l’integrità territoriale della Siria, ora più che mai minacciata. Cosa assai più semplice da dire che da fare. Lo testimoniano gli scontri subito scoppiati tra filo-turchi e curdi a Mambij, piccola enclave curda a Ovest dell’Eufrate, e l’ultimatum che gli uomini di Hayat Tahrir al-Shams hanno lanciato ai curdi di Aleppo: andarsene o morire. Ricordando, poi, che accanto alle linee di faglia geografiche e politiche si agitano anche quelle religiose: la Siria è rimasta finora, e nonostante la lunghissima guerra civile, uno dei pochi Paesi del Medio Oriente ancora multiconfessionale. Ma già arrivano notizie di fughe precipitose (per esempio, sembra che la quasi totalità dei cristiani armeni, circa 50 mila persone, sia già fuggita in Libano) e i proclami di tolleranza verso le minoranze dell’ex qaedista Al Julani valgono quel che valgono. Il tutto in un Paese massacrato dalla guerra e sulla cui popolazione hanno infierito le sanzioni internazionali, applicate senza pietà allo scopo di minare la resistenza del regime.
Anche da questo, e cioè dal modo in cui si proverà a regolare tali clamorose differenze, si capirà chi, dall’esterno della Siria, ha più lavorato per arrivare a questo esito. Certo, non è passata inosservata la lunga intervista che la Cnn ha fatto al jihadista Al Julani, trattato come un capo di Stato proprio nelle ore in cui l’ambasciata Usa ricordava che si tratta di un terrorista ricercato da anni, con tanto di taglia da 10 milioni di dollari sulla testa. Un’altra traccia arriverà dai soldi: vedremo chi investirà su questa «nuova Siria», o su quale parte di essa, e allora capiremo chi ha avviato certi meccanismi.
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