La conseguenza politica della sentenza di Palermo è evidente: l’assoluzione di Salvini «perché il fatto non sussiste» rafforza il leader leghista e rende più serena la navigazione del governo e della premier che non dovrà confrontarsi con l’imbarazzante circostanza di un vicepremier condannato addirittura per sequestro di persona e ora invece può esternare la sua «grande soddisfazione» per la polverizzazione di accuse «surreali e infondate» perché «difendere i confini non è mai un criminale. Avanti insieme». Nello stesso tempo l’assoluzione delude il mondo delle ong e della sinistra in generale e sottrae all’opposizione parlamentare un fortissimo strumento di polemica che sarebbe stato utilizzato per tutto il resto della legislatura, gettando sul governo italiano un’ombra che in campo internazionale avrebbe pesato parecchio.
E invece tutto ciò non accadrà «perché il fatto non sussiste», ciò vuol dire che l’intera linea della Procura è stata respinta dal tribunale palermitano rendendo ancora più rotonda la soddisfazione dell’imputato, del suo partito, dei suoi alleati, e di tutta quella parte dell’elettorato che ritiene giusto contrastare l’immigrazione illegale.
Questo comporta che il governo si sentirà ora ancor più legittimato a perseguire la sua politica di lotta all’immigrazione illegale, compreso l’esperimento albanese messo seriamente a rischio proprio dalle sentenze dei giudici. Inoltre si può ipotizzare che l’assoluzione possa fruttare elettoralmente a Salvini aiutandolo a risalire la china che la Lega ha imboccato da tempo e che ha messo pericolosamente in bilico la leadership del ministro dei Trasporti. Il quale, alla lettura della sentenza, non a caso ha commentato: «Adesso andrò avanti ancora più determinato». Per poi aggiungere: «Sono stato assolto per aver fermato l’immigrazione di massa e difeso il mio Paese. Vince la Lega, vince il buonsenso, vince l’Italia».
La maggioranza è stata compatta senza un solo dissenso dalla linea ufficiale: anche in caso di condanna, nessun obbligo a dimettersi. È stata Giorgia Meloni in persona ad assicurare a Salvini che questa sarebbe stata la sua posizione anche se forse la Lega avrebbe gradito una maggiore esposizione personale della presidente del Consiglio.
In ogni caso l’altra sera alla Camera, all’arrivo della notizia c’è stato un lungo applauso da tutti i settori del centrodestra. Per l’intera giornata i colleghi di governo di Salvini avevano ripetuto che, se condannato, non si sarebbe dovuto dimettere. Lo ha detto il ministro dell’Interno Piantedosi che di Salvini era il capo di gabinetto al Viminale al tempo dei fatti della Open Arms e ora è il suo successore. Lo ha affermato anche l’altro vicepremier, Tajani, che pur essendo in costante polemica con il suo pari grado, non ha esitato a dire che le dimissioni non erano dovute di fronte ad una sentenza di primo grado e quando la sentenza è stata pronunciata ha detto: «C’è un giudice a Palermo». Per non parlare dei leghisti: non si trattava più delle divisioni interne al movimento, si trattava invece di fare quadrato intorno al leader, una caratteristica che ha sempre denotato i leghisti. Non a caso accanto a Salvini nell’aula del carcere Pagliarelli c’era il ministro dell’Istruzione Valditara. Più cauto il veneto Zaia che ha aspettato la sentenza per dire la sua: «Giustizia è fatta».
Dall’estero tutto il fronte politico alleato della Lega festeggia, per primo il premier ungherese Orban, anche lui sostenitore della linea del blocco all’immigrazione: «Ha prevalso la giustizia» ha detto, «bravo Salvini».
Come non dedurne un miglioramento della reputazione politica di Salvini anche nel campo dell’internazionale cosiddetta sovranista? Tra le poche dichiarazioni dell’opposizione, quella di Angelo Bonelli dei Verdi: «Le sentenze si rispettano, ma il giudizio politico non cambia». La delusione è forte.
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