Alzi la mano chi è rimasto sorpreso. Dopo avere visto, vissuto e sopportato, dopo avere imprecato e inveito in questi ormai tre anni di cantiere, possiamo affermare che l’avariata variante della Tremezzina è la perfetta esemplificazione della tipica, caratteristica, opera pubblica all’italiana: inimitabile, inconfondibile, che nessuna parte del mondo ci invidia.
Il testimonial perfetto della cialtronaggine nazionale, di leggi tanto complicate quanto inutili, di normative bizantine che dovrebbero scoraggiare la corruzione (ah ah), di appalti impantanati e perizie suppletive che finiscono per moltiplicare tempi e costi e chissà cos’altro. Saranno anche luoghi comuni, ma sono luoghi che la nostra variante ha visitato, tutti. Ci sarebbe fin da sorridere, non ci fossero di mezzo milioni e milioni di fondi pubblici - quelli che poi si raschiano alla sanità o alle pensioni - e decine di migliaia di persone prese per il lato B.
Così, dopo tre scandalosi anni di stop certi e finte ripartenze, di sopralluoghi senza senso, promesse a caso, bocche aperte, sorrisi a 32 denti e aria fritta, botti veri e sparate elettorali, ritardi, inconvenienti e imprevisti, ecco arrivare ciò che ancora mancava: l’inchiesta per corruzione. L’indagine, secondo l’ipotesi investigativa, riguarda funzionari Anas foraggiati dall’impresa che si è aggiudicata l’appalto. Sia chiaro: allo stato sono d’obbligo condizionali e periodi ipotetici perché non c’è alcuna sentenza. E comunque l’indagine riguarda solo alcune persone e non certo tutti quelli che all’Anas lavorano.
Però. Però c’è un cantiere finito in un cul de sac, fermo da mesi e senza prospettive. Gallerie in cui non si scava più e che si allagano, imprese che salutano e smobilitano, rocce dalle quali sono spuntati per magia arsenico e idrocarburi, come se non si sapesse cosa contengono le nostre montagne. Lavori che per un po’ procedono, poi chissà perché si fermano. Poi ripartono, frenano, e finiscono nella palude.
Comunque vada a finire l’inchiesta sulla corruzione, rimane un fatto incontrovertibile: questo sistema degli appalti e delle opere pubbliche è avariato e insostenibile. Non funziona. Sarà colpa dell’Anas, ente accentratore con tutti i rischi che questo comporta, sarà colpa delle imprese che si aggiudicano l’appalto e hanno il coltello dalla parte del manico. Sarà colpa di leggi scritte male o di un sistema di controlli farraginoso. Sarà colpa della politica da social, la politica da baraccone dell’annuncio roboante o della menzogna sistematica. Sarà colpa di un’opinione pubblica anestetizzata dal “tutti fanno così” e “che cosa vuoi farci”. E no. Nel suo piccolo, questo giornale ha dimostrato che le mobilitazioni servono. Senza di loro, ad esempio, i lavori dopo le elezioni europee manco sarebbero ripresi.
Concretamente: lasciamo che l’inchiesta faccia il suo corso e stabilisca se ci sono stati corrotti e corruttori. Ma, per favore, togliamo questa opera ad Anas. Primo, per evitare ulteriori lungaggini; secondo, per cercare di rivedere la luce in fondo al tunnel, letteralmente. Non sarà la soluzione di tutti i mali, ma l’affidamento del pacchetto a un commissario pare la via più logica e semplice. Se non l’unica. Commissario da scegliere con criterio e che, ascoltato il territorio, dovrà concretamente mettersi attorno a un tavolo con le imprese e il ministero (che è quello che paga). E lì stabilire: cosa fare per far ripartire gli scavi a Griante ma anche a Colonno, trovare soluzioni per la destinazione dei detriti, definire con precisione i costi, trovare le risorse, fissare i tempi e ripartire. Un piano concreto, pratico, apolitico e apartitico. Un piano che inchiodi imprese e ministero alle loro responsabilità. Con il commissario a guidare, sollecitare e vigilare. E in fretta.
La pazienza ha un limite.
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