Scalavano insieme al servizio degli altri

Stilare delle “classifiche”, delle graduatorie sul dolore, di fronte alla morte è quanto di più odioso si possa fare e pensare. Il rispetto, e il silenzio, davanti a qualunque vita che si spegne per un fatto tragico è la prima regola da seguire. Soprattutto per chi ricopre una posizione come la nostra.

Al netto di tutto ciò, e al riparo da questa regola basilare, non possiamo ignorare l’enorme e accorato sentimento di umana vicinanza che si è riversato, come una nuvola scura carica di lacrime, su una parete di roccia della Val di Mello trasformatasi in una muraglia perpendicolare ricoperta di dolore. Tre militari sono morti nell’esercizio del loro dovere, come recita una frusta espressione utilizzata per dire che le vittime erano impegnate a svolgere un compito professionale al servizio degli altri.

E recarsi in Val Masino per portare a termine un’esercitazione di soccorso alpino rientra proprio nei canoni di questa descrizione. Si accetta una componente di rischio personale per porre un argine a quello generale.

Un allenamento in attesa di mettere in pratica quanto appreso sul campo. Per salvare altre vite. Per riportare a casa persone in difficoltà. Per rendere la montagna meno arcigna e pericolosa nella sua selvaggia bellezza. Un’attrazione che la Val di Mello dispensa a piene mani, in ogni suo angolo. Ma che ieri si è trasformata in un cimitero per tre giovani uomini valtellinesi della Guardia di finanza del Soccorso alpino. Scalavano per imparare, per aggiornarsi, per migliorare le tecniche da adottare al fine di incrementare la sicurezza altrui. Affrontando un rischio calcolato che si è rivelato fatale

Tutto questo rende questa tragedia doppiamente assurda, tremendamente ingiusta, insopportabilmente amara. Ancora una volta il lavoro si rivolta contro chi lo sta facendo, condannando tre famiglie a piangere altrettanti morti. Morti, ripetiamolo, in servizio. Per essere più efficienti nei weekend quando le uscite degli uomini del Soccorso si contano a decine e i vorticosi voli degli elicotteri diretti verso le vette richiamano cupi presagi e sollevano aneliti di speranza.

Per questo l’incidente mortale avvenuto all’altezza dello sperone di roccia del Precipizio degli Steroidi appare così insensato, così lancinante. La montagna ieri non era un terreno ludico teatro di sacrosante e comprensibili scorribande vacanziere, e neppure di sfide al cardiopalma, ma campo di prova, luogo di esercizio, palestra di fatica. Parete di roccia dove ora ci sono tre croci. Che sono uguali, intendiamoci a scanso di equivoci, a tutte le altre croci disseminate nelle nostre valli. Soltanto, in questo caso, lasciateci dire che sembrano risaltare un po’ di più nel loro bianco candore, nella loro madida tenerezza, stagliandosi contro un cielo incredulo e sofferente. Che come un sudario stringe a sé tre uomini che hanno donato la loro giovane vita per adempiere a un ideale di fratellanza senza confini.

Un sacrificio che la montagna conosce bene, dispensatrice di beatitudini e di lutti in egual misura nella sua tremenda, affascinante, immutabile e verticale imperscrutabilità a metà strada fra la terra e il cielo.

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