Sbagliato cancellare l’abuso d’ufficio

Il reato di abuso d’ufficio previsto dall’art. 323 del codice penale è stato abrogato dall’art. 1 della legge n. 114 del 2024.

Esso esisteva da ben 205 anni essendo presente nel codice del Regno delle due Sicilie del 1819, nel codice Zanardelli del 1889 e nel codice Rocco del 1930 attualmente in vigore. Dal 1990 al 2020 il reato è stato più volte modificato nell’entità della pena, nella fattispecie e nelle misure accessorie. La riforma del 2020 lo aveva circoscritto alla violazione di specifiche regole di condotta previste dalle leggi “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Venivano così sanzionati per esempio gli insegnanti che danno lezioni private ad alunni delle proprie classi, in violazione dell’art. 58 della legge n. 297 del 1994.

Eppure, nonostante le tante modifiche nel frattempo intervenute per restringerne la portata e per meglio ridefinirlo, il reato in questione era da tempo oggetto di critiche da parte del Governo e soprattutto del ministro della Giustizia Nordio, che aveva sottolineato che la paura della firma da parte dei sindaci produceva un “grande danno economico” per i cittadini. I sindaci, però, chiedevano che il reato fosse rivisto, modificato ma non cancellato. Comunque, il reato non era così vago e incerto se dal 1997 al 2020 ci sono stati per l’abuso d’ufficio più di 3.600 condannati, i quali hanno ora il diritto di ottenere dal giudice dell’esecuzione la cancellazione della condanna dal casellario giudiziario, avendo l’abrogazione efficacia retroattiva.

In effetti, la fattispecie prevista dal reato doveva essere meglio specificata, in modo tale da non poter essere interpretata estensivamente a casi non previsti dal legislatore. Ma di certo gli abusi, le omissioni, i favoritismi dolosi dovevano essere pur sempre puniti se vogliamo che il nostro Paese sia uno Stato di diritto. Si poteva, per esempio, lasciare l’abuso d’ufficio per la violazione di una legge e per omessa astensione in caso di un consapevole conflitto di interessi.

Invece, dopo l’abrogazione del reato la situazione è peggiorata perché si è creato un vuoto normativo. Non sono, infatti, più punibili pubblici ufficiali che favoriscono un amico, truccano concorsi pubblici, indirizzano al proprio studio privato i pazienti, sanano immobili abusivi di un parente, favoriscono il proprio allievo in un concorso universitario o danno lezioni private ai propri allievi.

Certo, restano gli altri reati di falso, peculato, corruzione, concussione, se ne sussistono i presupposti, oltre alla possibilità di ricorrere al Tar, alla Corte dei Conti per danno erariale o di attivare i procedimenti disciplinari.

Peccato, però, che per la Corte dei Conti esiste un progetto di legge che circoscrive la responsabilità contabile alla sola ipotesi del dolo mentre i procedimenti disciplinari sono sempre sospesi in attesa dell’esito del giudizio penale che in caso di abrogazione del reato non ci sarà più. Non a caso il Csm ha di recente archiviato 20 procedimenti disciplinari a carico di magistrati indagati per abuso d’ufficio.

Va aggiunto che finora già sei Tribunali hanno sollevato davanti alla Consulta la questione della costituzionalità della legge abrogativa dell’abuso d’ufficio con riferimento all’art. 117 della Costituzione per la possibile violazione degli obblighi internazionali previsti dalla Convenzione Onu di Merida e all’art. 97 della Costituzione sui principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.

Infine, bisogna tener conto anche della proposta di direttiva del Parlamento europeo che all’art. 11 prevede che gli Stati membri “prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato l’intenzionale esecuzione o omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”.

Perciò, se dovessero essere accolte l’incostituzionalità della legge di abrogazione o la proposta di direttiva europea il reato di abuso d’ufficio dovrebbe essere reintrodotto nel nostro codice penale.

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