E adesso il rompicapo della maggioranza è il seguente: come affrontare i referendum che la Cassazione ha dichiarato legittimi (e in attesa il 10 febbraio della sentenza della Corte Costituzionale sulla loro ammissibilità)? Una domanda che però non riceve risposte univoche tra i tre partiti del centrodestra partendo dal fatto che l’autonomia differenziata è cosa che impegna soprattutto la Lega mentre FdI e Forza Italia l’hanno sempre guardata con più di un sospetto. Quindi se il referendum avesse successo e la legge fosse abrogata, ragiona qualcuno, lo schiaffone sarebbe soprattutto per Salvini. Ma è pur vero, obietta qualcun altro, che se gli elettori dovessero bocciare una legge voluta dal governo, la sconfitta sarebbe comunque di tutti, a cominciare da Giorgia Meloni. Quindi, che fare?
Fosse per Calderoli, bisognerebbe fare subito un decreto per modificare il testo secondo le osservazioni della Corte Costituzionale (che ha sbarrato ben sette capitoli della legge) e quindi rendere inutile il referendum: la Corte a febbraio non potrebbe che prendere atto che il Parlamento ha seguito le sue indicazioni e dichiarare inammissibile il referendum delle opposizioni.
Ma è una strada molto complicata, un po’ per i tempi così ristretti, un po’ perché trovare un accordo nella maggioranza su quelle modifiche adesso è ancora più difficile. Bisogna ricordarsi che l’elettorato del Sud di centrodestra - FdI e FI - è massicciamente contrario alla legge Calderoli che è considerata niente altro che un danno per il Meridione, una legge “delle regioni più ricche del Nord che vogliono fare da sole”. Del resto queste sono le parole dei governatori azzurri di Sicilia, Calabria, Basilicata al pari di quello che vanno dicendo i loro colleghi del PD di Puglia e Campania. Con questa pressione alle spalle, Tajani certo non si intesterebbe una modifica che evitasse il referendum guardato con simpatia anche da chi vota per lui.
C’è un’altra strada, quella di provare a vanificare il referendum facendo propaganda per l’astensione. Come è noto, un referendum abrogativo è valido solo se va a votare il 50 per cento più uno degli elettori. Se ci si volta indietro, ci si accorge che agli italiani non va proprio di andare a votare per la democrazia diretta: gli ultimi tredici quesiti sono falliti perché le urne sono rimaste mezze vuote. Potrebbe andare così anche questa volta. Lo ammette Michele Emiliano, governatore della Puglia: «Sarebbe un miracolo raggiungere più della metà degli elettori».
E proprio sulla base di questi precedenti e di queste previsioni che la strada dell’astensione potrebbe essere la scelta di Giorgia Meloni, tant’è che Ignazio La Russa lo ha già detto: «E’ giusto che si faccia il referendum e che si discuta sul merito della legge». Poi certo – questo è il sottotesto - se nessuno va a votare vuol dire che agli italiani la cosa o non interessava o la riforma piace. Ma anche qui c’è una possibile obiezione: la Corte di Cassazione ha dichiarato la legittimità non solo del quesito sulla autonomia differenziata delle regioni ma anche di quelli che riguardano la cittadinanza per gli immigrati, il Jobs Act e la sicurezza sul lavoro, tutti argomenti che hanno una certa attrattività per molti pezzi di società e che potrebbero contribuire a far raggiungere il quorum. Tant’è che Landini, il segretario della Cgil, ha già detto che il sindacato comincerà da subito a fare campagna referendaria per mandare più gente possibile nei seggi.
Tutte le strade insomma presentano i loro rischi per Giorgia Meloni, per il governo nel suo insieme e per gli interessi elettorali di ciascun partito della coalizione di maggioranza. Si tratta di scegliere quale è il male minore per non dare alle opposizioni una possibile occasione di rivalsa.
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