L’uomo dei clan che arriva con il vecchio Apecar in mezzo ai campi, un rudere vista Resegone come base per i riti di affiliazione. Le sedie di plastica da pochi euro, rifiuti e latte vuote.
Immagini di una mafia arcaica: potrebbe essere un paesino dell’Aspromonte o la Sicilia del dopoguerra. Più simile a quella del bandito Giuliano, che alle storie del commissario Montalbano nate dalla penna impareggiabile di Andrea Camilleri.
Non sembra la ‘ndrangheta 2.0 che raccontiamo da anni. Quella dei colletti bianchi e delle zone grigie, quella dei professionisti che chiudono un occhio – tutti e due, tante volte – e prosperano servendo i clan, quella che infiltra la politica e ha trasformato anche Expo in una gigantesca opportunità di malaffare, a dispetto dei controlli e dei protocolli di legalità.
Altri tipi umani, stavolta. C’è chi apparentemente sbarca il lunario in qualche modo, o il giovane pensionato dopo una vita in fabbrica o chi si arrangia a pitturare case.
Poi però ti leggi le pagine dell’ordinanza, conti i cinquecento episodi di estorsioni, intimidazioni e minacce descritti nell’inchiesta condotta da Ilda Boccassini. E la tentazione del folclore passa subito. E’ l’altra faccia della ‘ndrangheta, quella che non lavora col computer, ma scarabocchia l’intimidazione su un pezzo di carta stropicciata con grafia apparentemente incerta.
Quella che al Nord ha cominciato a radicarsi quarant’anni fa, pescando truppe nella massa di uomini e donne arrivati dal Sud per lavorare sodo e dare un futuro ai figli. La ‘ndrangheta che, piano piano, ha colonizzato intere zone nella sostanziale indifferenza di una terra abituata a faticare a testa bassa, si trattasse di braccia indigene o venete, calabresi o siciliane.
Ieri un cronista dalla memoria lunga come il nostro Umberto Filacchione ha raccontato da queste colonne il radicarsi a Calolzio del clan di Coco Trovato, fino alla clamorosa operazione Wall Street, quando l’inchiesta guidata da Armando Spataro squarciò il velo dell’ipocrisia e segnò per Lecco la perdita dell’innocenza. La ‘ndrangheta tra noi, i locali dove anche la buona società lecchese mangiava con soddisfazione, la medaglia al boss che aveva dato lustro al commercio cittadino. La Lecco peggiore, insomma, quella dell’eterno don Abbondio che magari non è complice, ma preferisce non sapere.
Calolziocorte si gonfiava di immigrati, come Olginate e Valmadrera, e in mezzo a tanta brava gente i piccoli e grandi boss replicavano i riti delle terre d’origine. Metastasi, tanto per citare l’inchiesta che appena pochi mesi fa ha svelato un’altra storia, quella dei rapporti con la politica locale. Una vicenda ancora tutta da scrivere, visto che il processo Metastasi a Milano è solo alle battute iniziali.
E ancora una volta è toccato al pool antimafia milanese rompere il silenzio della Bella Addormentata affacciata sul Lario. Di quella città quasi infastidita da tanto clamore, quella che si era illusa – aveva finto di illudersi? - che dopo l’arresto di Franco Coco Trovato e dei suoi questo ramo del lago di Como fosse stato bonificato.
Amministratori, ma anche responsabili dell’ordine pubblico, che solo un paio d’anni fa rispondevano alle domande di chi scrive – con una punta di fastidio – che la situazione era “sotto controllo, stabile e comunque attentamente monitorata”. Quella insomma che “la mafia al Nord non esiste”, come con formidabile intuizione ha detto pochi anni fa un ex prefetto di Milano. Non esiste, eppure spesso comanda.
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