
Dicono che Vittorio Sgarbi, oltre che gravemente malato, sia depresso. Sai che notizia. Solo gli sciocchi non lo sono.
Cosa c’è da ridere su questo vecchio sasso? Il tempo passa, tutto scorre, tutto annoia, tutto finisce. Al capolinea, alla resa dei conti, resta solo l’uomo, l’uomo e la sua solitudine, perché mai come in quel momento - immortalato dalla terribile, devastante ultima riga de “La famiglia Moskat” di Isaac Singer - ogni essere umano capisce che è solo. Si nasce soli, si vive soli, si muore soli. Fine della storia.
Ora, il tema della depressione, della nevrosi, del male di vivere, che è il virus della modernità, del Novecento, il Covid delle società ricche e opulente, quelle che si sono affrancate dalle esigenze primarie e che quindi hanno scoperto la bellezza e l’orrore del cosiddetto “tempo libero” – nessuno può permettersi il lusso di essere depresso se muore di fame o di sete, dorme per terra o gli tirano le bombe in testa: è troppo impegnato a sopravvivere – è un topos del mondo contemporaneo. Materia eminentemente letteraria, analizzata e resa classica, immortale da grandi autori anche italiani, basti pensare al magnifico “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, che la critica militante non ha mai molto amato, visto che quello scrittore era un bel ragazzo, non era socialmente impegnato e, soprattutto, non era comunista - però almeno ai tempi i “censori” dell’editoria erano Calvino e Vittorini, non gli scappati di casa di oggi - oppure al magistrale “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo o, in modo particolare, a “La cognizione del dolore” del malmostoso, insopportabile, ma probabilmente inarrivabile Carlo Emilio Gadda. Tanta roba.
Nel caso di Vittorio Sgarbi la cosa è ancora più impressionante - ci sono alcune sue foto recenti che stringono il cuore - a fronte della formidabile fisicità, della scatenata aggressività e voglia di vivere e di essere protagonista e mattatore e attore unico e istrione onnivoro della sua vita e di quella degli altri. Una carriera clamorosa - al netto che l’approvassimo o meno, al netto di tutte le sue follie e di tutte le sue smargiassate - sempre sul palcoscenico, sempre in prima fila, sempre ovunque e comunque e con chiunque, architettando qualsiasi cosa, pagando qualsiasi prezzo, rompendo qualsiasi schema. Genio, furbo, colto, coltissimo, forbito, seducente, stregonesco, attaccabrighe, piacione, fanfarone, cialtrone e tutto il resto che volete voi.
Ecco, proprio l’esatto contrario del prototipo dell’uomo depresso. E allora com’è potuto accadere? Cosa sarà mai successo? Come ci è finito lì dentro, lì in fondo, così all’improvviso? Perché a un certo punto è crollato tutto? Forse sarà un prodotto della malattia fisica - grave - che lo ha colpito. Forse no. Forse anche. Ma non è questo il punto, è giusto che tutto questo rimanga riservato a lui e ai suoi affetti più stretti.
La riflessione più ampia che si può fare e che riguarda tanti di noi, forse non tutti, ma tanti, tantissimi di noi, è che proprio l’attivismo, l’iperattivismo che segna le nostre giornate, le nostre esistenze non sia il contrario della depressione, ma ne sia invece proprio la spia. E’ quello il primo segnale d’allarme, la luce rossa che dovrebbe metterci in guardia, perché quando fai troppo, vuoi fare troppo, vuoi giocare ogni partita significa che lì sotto qualcosa non va, il tarlo rode, forse sta per venire giù tutto.
Lavoro lavoro lavoro, carriera carriera carriera, potere potere potere, soldi lusinghe e possesso, possesso lusinghe e soldi. Non basta mai. Ne hai bisogno sempre di più, per coprire un vuoto, proprio come il Don Giovanni di Mozart, che continua a sedurre e conquistare, una donna via l’altra, sempre di più, sempre più bramoso, sempre più ossessionante - “solo in Spagna sono già mille e tre” - e comunque non gli bastano mai perché quello non è amore, ovviamente, né lussuria, né foia, né gioco. Quella è disperazione. Quella è paura di morire. Don Giovanni si attacca alla vita, al suo possesso, al suo stupro, perché dentro di sé sa che è destinato a perderla. Chiunque tu sia, anche se milionario o re delle Indie o padrone del mondo o pezzo da novanta o direttore dei direttori. A un certo punto tutto finisce e di te, nel giro di poco tempo, pochi anni, pochi mesi, pochi giorni non resterà niente. Niente di niente. Come se non fossi mai esistito. Deprimente, vero?
Non c’è una controprova statistica a questa analisi, naturalmente, ma forse è questa la radice dei nostri iperdinamismi, dei nostri carrierismi, dei nostri presenzialismi, egocentrismi, bulimismi. La coscienza subliminale della disperazione di essere, della disperazione di vivere. A un certo punto, uno si ferma e si domanda - finalmente - che cosa vuole dire tutta questa sceneggiata, questa buffonata, questa baracconata. E’ tutta una presa in giro, una commedia tragica e grottesca e pure ridicola, è tutta cartapesta, un labirinto di Borges, un sogno sognato da un sognatore che ci sogna, come scriveva lui, un gioco di specchi. E più ti agiti, più ti sbatti, più ti dimeni, più ti infili nella trappola della clessidra. Il fisico non ti regge più e manco la testa, il talento non dura e quindi, per quanto doloroso possa essere, il tuo tempo sta per finire. E non ci sarà alcun feng shui esistenziale che ti possa salvare dal precipizio.
Sarà successo questo a Vittorio Sgarbi, formidabile animale culturale, televisivo, politico e vitalistico. Sarà successo di sicuro questo, ci si può scommettere. O forse no. Ma succede di certo questo a tanti di noi. Smetti di correre sulla ruota del criceto, alzi gli occhi al cielo e ti accorgi che il cielo è vuoto, perché noi lo abbiamo svuotato scientemente. Il nostro sguardo ottuso non è più in grado di tornare a rivedere le stelle, non gli resta altro che posarsi sulle infinite infamie di questo povero basso mondo e dei suoi miserabili sentieri che, appena scende la sera, iniziano a popolarsi, uno dopo l’altro, di anime tormentate e di demoni.
@DiegoMinonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA