I n Medio Oriente siamo ora arrivati ad un crocevia storico con il rischio che l’incendio regionale si aggravi e si unisca a quello in Ucraina. Sorge a questo punto una domanda: ma quale è la strategia di alcuni dei giocatori?
Premesso che nell’ultimo anno Israele ha ridimensionato militarmente alcuni degli alleati di Teheran - Hamas e Hezbollah su tutti - adesso ci si aspetta che il premier Netanyahu miri al bersaglio grosso, ossia all’Iran.
Due sono gli obiettivi di Gerusalemme. Il primo (a portata di bombardieri): cancellare il programma nucleare (per lei mortale) degli ayatollah, sfuggito al controllo della comunità internazionale. Il secondo: assestare un colpo decisivo al regime teocratico, considerato la vera fonte di instabilità regionale, facendolo cadere. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo, Netanyahu ha la necessità di riallacciare i legami - deterioratisi un anno fa, dopo lo scoppio della tragedia di Gaza - con i Paesi arabi con cui era iniziata la normalizzazione delle relazioni grazie agli Accordi di Abramo del 2020.
L’aiuto della diplomazia Usa e la capacità di immaginare un futuro politico di pace con i palestinesi saranno in questo caso determinanti. Il problema più grande al momento è che il tempo non è amico di Netanyahu, che intende colpire a breve l’Iran, dimostratosi più debole di quanto si immaginasse. Il premier israeliano non può permettersi di aspettare lo svolgimento delle presidenziali Usa del 5 novembre prossimo, mentre l’Amministrazione Biden teme che un’azione israeliana contro i pozzi di petrolio o addirittura contro le centrali atomiche porti ulteriore imprevedibilità nello scontro Harris-Trump. A tal proposito Washington ha consigliato a Netanyahu di darsi una calmata anche se comprende che i gravi errori commessi da Teheran e i passi falsi di Hamas e Hezbollah abbiano offerto a Gerusalemme un’occasione d’oro da non farsi sfuggire.
In questa situazione esplosiva va letta con attenzione la notizia dell’incontro in Turkmenistan tra Vladimir Putin e il collega iraniano neoeletto Masoud Pezeshkian annunciata per venerdì 11 ottobre. Da mesi le intelligence occidentali hanno riferito dell’intensa cooperazione in campo militare fra russi e iraniani. Teheran, che ha visto sbriciolarsi in pochi mesi la sua strategia regionale degli ultimi decenni, ha inviato a Mosca droni, munizioni e missili balistici nel recente passato. Adesso cosa offrirà Putin ai colleghi iraniani in evidente difficoltà? Contraccambierà il sostegno ottenuto a sua volta da Teheran quando la situazione era opposta? I pericoli di uno scenario di scontro globale sono manifesti. Come un anno e mezzo fa, qualcuno nelle cancellerie occidentali pensava di dare una lezione ai russi infliggendo loro una sconfitta strategica in Ucraina, ora si sta facendo lo stesso tipo di ragionamento contro gli iraniani. Con una differenza rispetto al dramma nell’Est europeo: nessuno oggi in Medio Oriente pensa alla pace.
La Russia, che ha visto sconfitta la sua strategia di mantenimento dello status quo regionale, ha tutto l’interesse a spostare l’attenzione lontano dallo spazio ex sovietico. Così Putin ha maggiori possibilità di non pagare dazio per lo spaventoso errore compiuto nel febbraio 2022 invadendo il Paese vicino. Fornirà missili agli Houthi in Yemen, come voleva fare qualche mese fa? Le prevedibili mosse iraniane saranno la chiusura dello stretto di Hormuz, da dove passa il 40% del greggio mondiale, e il tentativo con gli Houthi di bloccare l’accesso al mar Rosso, transito merci obbligato tra Asia e Europa. Il prezzo da pagare sarà alto per tutti, ma soprattutto per la Cina. Ma Pechino, dov’è?
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