Politiche pubbliche, la riforma più difficile

L’orizzonte dell’azione di governo non è affatto facile, data la complessità dei problemi, e a causa dell’esiguità di risorse finanziarie.

Sorprende che – di fronte a tali difficoltà – si tenga poco conto del ruolo del sistema amministrativo nei progetti di ottimizzazione delle politiche pubbliche. Non vi è stato governo che non abbia incluso la riforma dell’amministrazione tra i suoi obiettivi. Ma a tali enunciazioni non è seguita quasi mai un’azione effettiva di modernizzazione in grado di alimentare processi di cambiamento effettivi. I tentativi sono sovente stati del tutto marginali, senza sbocchi soddisfacenti, perché è sbagliato pensare che le leggi bastino a cambiare la qualità degli apparati pubblici.

Sarebbe un errore madornale e la riprova del vizio di molti uomini politici (di ogni colore) che pensano che le norme possano, di per sé, cambiare comportamenti e rendimenti.

Puntare sulla responsabilizzazione dei dirigenti, costruire meccanismi di valutazione, incentivare il merito, costituiscono altrettanti presupposti per il buon funzionamento degli uffici pubblici. A volte, però, tali indirizzi sono stati, per così dire, messi in ombra da slogan (come quello sui “fannulloni”). Ciò ha contribuito a creare un clima da caccia alle streghe che non facilita la risoluzione dei problemi. La grande mole di leggi e regolamenti che si è abbattuta sulle pubbliche amministrazioni non produrrà risultati utili, se non sarà costante e duratura l’azione di accompagnamento e verifica dei risultati ottenuti.

Per venire a capo del “problema burocratico” occorre non soltanto molta pazienza, ma anche la capacità di motivare i destinatari delle misure di riforma. Nel 1918 Piero Gobetti avvertiva che, senza il concorso degli impiegati, la riforma della pubblica amministrazione non sarebbe stata possibile. La caterva di tentativi falliti dovrebbe far riflettere su un fatto banale: andare allo scontro è raramente utile, spesso controproducente. Occorre riuscire a instaurare un dialogo tra chi progetta il cambiamento e coloro che se ne devono fare carico. Soltanto motivando i migliori ed evitando di creare un clima di muro contro muro, si riuscirà a trascinare la gran parte dei pubblici dipendenti.

I rapporti tra cittadini e burocrazie pubbliche non sono mai stati, sotto ogni latitudine, particolarmente idilliaci. All’inizio del Novecento Karl Kraus racchiudeva l’essenza del problema nel brillante aforisma: «Il pubblico è una istituzione creata per dar fastidio alla burocrazia». Dietro i veli del paradosso si cela un problema di indubbio spessore che potremmo sintetizzare così: quanto può dirsi realmente democratica una società nella quale l’amministrazione continua a mantenere un volto arcigno e nella quale i diritti di partecipazione sono tuttora materia di estenuante contrasto? In più: che profilo ideale e culturale (oltre che formale e organizzativo) ha un sistema amministrativo che dialoga con intermittenza con i cittadini e, in alcuni casi, non dialoga affatto? Di che stoffa (culturale, professionale, umana) sono gli oltre tre milioni di addetti al settore pubblico? Che non si dia ordinamento compiutamente democratico se l’amministrazione non funziona effettivamente, normalmente in modo democratico, è cosa ovvia alla coscienza civile. La carenza di rapporti di comunicazione è una delle ragioni del distacco tra i poteri pubblici e i cittadini.

Un ministro della Funzione pubblica, nel 1979, affermava che lo Stato non è un amico sicuro e autorevole, ma una creatura, ambigua, irragionevole, lontana. L’immagine di uno Stato tanto estraneo dipendeva, in larga parte, dalle leggi, molte delle quali non erano rispettose della garanzia della libertà dei cittadini, tra cui quella di essere informati sulle attività dei poteri pubblici. Ed è questo il passaggio che occorre per provare a cambiare realmente la qualità del sistema pubblico.

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