Nel maggio del 1947 il giurista e gesuita Salvatore Lener scrisse su “La Civiltà Cattolica”: «L’imparzialità del giudice non è soltanto una condizione per la migliore amministrazione della giustizia, non è una mera qualità dell’organo giurisdizionale; ma è l’elemento che definisce semplicemente la stessa natura intorno alla funzione giurisdizionale nei confronti delle altre funzioni sovrane e, particolarmente, di quella esecutiva».
Nel Paese si dibatteva allora, con passione civile, sulla definizione dei principi e d elle regole che si sarebbero tradotte, alla fine di quell’anno, nella nascita della Costituzione repubblicana. Uno dei passaggi dell’ordinamento, fissati nella Carta costituzionale, riguardava specificamente il ruolo della magistratura, alla quale veniva affidata la funzione di esercitare la giustizia, nel rispetto delle leggi, in autonomia rispetto al potere politico.
Si trattava di un totale capovolgimento del modello vigente nel Regno d’Italia. Ciò nonostante, il rapporto tra magistratura e politica è stato sempre particolarmente accidentato. Talvolta il lavoro dei magistrati è sconfinato nel terreno della politica e, nel contempo, da parte di alcuni governi (in particolare di alcuni partiti) si è assistito alla volontà di mettere il bavaglio al compito della magistratura.
Uno dei maggiori storici italiani, Raffaele Romanelli, ha scritto che siamo «spesso chiamati a riflettere sui rapporti che intercorrono tra magistrati e sistemi politici, e più in generale tra giustizia e potere». Ciò dipende dal fatto che nei Paesi di più antica tradizione garantista, l’estensione dei diritti civili a nuovi soggetti e a nuove dimensioni dell’esistenza individuale e collettiva sempre più conduce i magistrati di esprimersi su questioni di importante attualità politica, le quali si incrociano immediatamente con le scelte dei governi e con l’azione delle pubbliche amministrazioni. La lucida analisi dello storico costituisce una sorta di controcanto alle osservazioni critiche sulle anomalie del rapporto tra giurisdizione e politica nel nostro Paese. Due rovesci della stessa medaglia, dunque, che portano a fomentare contrapposizioni sempre più aspre, le quali hanno oltrepassato sovente il limite di guardia. Alla base di tale andamento vi sono, senza dubbio, la crisi di legittimazione delle istituzioni rappresentative e l’assurgere della magistratura a inusuale attore del cambiamento politico, hanno rappresentato, nella storia della Repubblica, due inestricabili elementi del malessere istituzionale. È innegabile che la delegittimazione del ceto politico è stata facilitata e alimentata dalle reiterate vicende che hanno portato sui banchi degli imputati esponenti, a volte di spicco, del ceto politico nazionale e locale. Circostanza che ha fornito valore sistemico all’azione dei magistrati.
Il quadro descritto da storici, giuristi e politologi converge – pur da angoli visuali diversi – a mettere in luce gli elementi fattuali dai quale prendere le mosse per tentare di analizzare l’evolversi dei rapporti tra potere politico e giurisdizione, al fine di tratteggiare il ruolo della magistratura nelle dinamiche delle società democratiche. Nell’incrocio complesso dei rapporti tra politica e giurisdizione - in quanto funzioni formalmente separate nella cristallizzazione della divisione dei poteri – sono presenti tre pilastri (legalità, diritto, legittimazione) che fungono da sostegno del tessuto democratico, ma intorno ai quali si sviluppa una perenne competizione finalizzata a modificare gli equilibri in campo. Tale scenario trova la sua sintesi nell’opinione del politologo Massimo Morisi, a giudizio del quale «attori politici e giudiziari l’hanno interpretata come una posta in gioco tra giustapposti poteri in conflitto, definiti una volta per tutte, utilizzandola nella polemica ricerca di una reciproca capacità di condizionamento e di vincolo».
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