Il Rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell’Europa, o meglio sul rischio che l’Europa non sia più competitiva, può essere un punto di avvio del nuovo ciclo dell’Unione europea, ma è lecito temere che gli ostacoli politici che nasceranno possano trasformarlo in un’altra occasione perduta.
La scettica evoluzione ideologica che emerge in quasi tutti i Paesi membri, specie nei principali, è stata arginata dal voto di giugno, ma è forte nelle sue pulsioni sovraniste e fatica ad accettare davvero il grido d’allarme del rapporto. Ci vorrebbe un «demos», un apporto popolare più profondo. La signora von der Leyen è alle prese con problemi di lottizzazione a 27 livelli che impediscono per il momento di avere il respiro lungo necessario, ma le sue intenzioni sono buone. Se davvero utilizzerà le 170 azioni concrete indicate nel Rapporto per scrivere le lettere di missione che saranno assegnate a ciascun Commissario, la fatica dell’ex presidente Bce non sarà stata inutile.
Ma il problema resta quello politico, e per ora le reazioni, a cominciare da quelle italiane, non sono all’altezza delle sfide prospettate. Vale sia per i critici che per i facili ammiratori. I toni degli oppositori, come Lega e 5 Stelle, sono banalmente elettoralistici. Affidare al leghista Borghi il commento sul Rapporto è come chiedere ad un vegetariano di parlare di bistecche. Ma cadono le braccia anche quando Tajani afferma giulivo che il Rapporto gli ricorda pari pari le paginette di una vecchia mozione parlamentare di Berlusconi o il capogruppo di Fratelli d’Italia Foti arriva a dire che fa propria l’agenda Draghi (ma non era l’unico oppositore del suo Governo, talismano della vittoria elettorale del 2022?). Insomma, il consenso apparente di cui gode il contributo offerto da Draghi non è rassicurante e lo sa l’ex premier che farà comunque il giro dei 27 Paesi Ue per supportarlo. Draghi anche in passato si è servito di messaggi politici anche quando le sue sembravano proposte tecniche e ha già sperimentato che l’efficacia di una frase ben detta è superiore a quella della stessa misura adottata. È infatti molto politica la denuncia di un «incubo» europeo, se non vi sarà un «cambiamento radicale». È vero che da parecchi anni tutti parlano di cambiamento e che questa è diventata in Italia la parola d’ordine per molte finte rivoluzioni: da quella referendaria di Segni, che ci ha dato la peggiore legge elettorale del mondo, a quella moralistica di Di Pietro, alla decrescita felice pentastellata, al rovesciamento dell’egemonia culturale affidata al ministro Sangiuliano.
Cambiamento a parole, affidato a classi dirigenti ogni volta sempre più modeste. Mario Draghi non ha scritto però l’ennesimo libro dei sogni e costringe a prendere posizione su argomenti dirimenti: il debito comune per mobilitare ben 800 miliardi anno sugli investimenti, la decarbonizzazione senza danni sulla competitività, la difesa comune, la ricerca (gli europei non sono «stupidi», ma allora perché tra le 50 società più tecnologicamente importanti solo 4 sono europee)? E poi il tema più politico di tutti: la produttività.È disastrosa quella italiana ma non sta bene neppure quella europea. È il tema più indigesto per partiti e sindacati. Qualcuno lo chiama liberismo a sproposito. È l’applicazione di severi metodi di efficienza, concorrenza, qualità nell’uso dei fattori della produzione. Secondo Draghi, senza produttività «non saremo mai in grado di diventare leader delle buone tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale». Ma attenzione: questo ci impedirà di finanziare il nostro modello sociale e ridimensionare tutte le nostre ambizioni.L’invito è insomma quello di diventare adulti e capire che le singole sovranità nazionali sono ridicole di fronte ai giganti mondiali, siano essi nazioni o imprese. Compito arduo, dunque, quello di Draghi, che farebbe fatica anche se a gestire la nuova Europa fosse lui stesso, italiano anomalo fra concittadini che si accapigliano per dare al Molise l’autonomia delegata nel commercio estero.
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