Tra due giorni gli americani sceglieranno il loro presidente e, al di là di previsioni e percezioni non di rado poco obiettive, nessuno sa come andrà a finire. L’elettorato Usa è (più che mai) spaccato in due parti pressoché equivalenti, che non si parlano perché non si sopportano e anzi si disprezzano a vicenda.
Nel campo progressista, finita in modo brusco e imbarazzante con un inevitabile ritiro dalla scena la breve era del centrista Biden, ha sempre più spazio il folle e intollerante radicalismo “woke”, con il quale la stessa candidata attuale Kamala Harris ha in passato flirtato; quello repubblicano si è addirittura trasformato nel partito personale di un leader aggressivo e abituato a mentire, quel Donald Trump che sembra rispettare le regole del confronto democratico solo se vince lui, e che ha gettato alle ortiche la tradizionale linea liberale-imperiale del defunto Grand Old Party. È la cosiddetta polarizzazione della politica, un fenomeno ingravescente che rischia di portare la principale potenza mondiale a una guerra civile in un futuro non troppo lontano.
L’unica cosa certa è che, siccome il mondo sta attraversando una fase di tensioni straordinariamente gravi, questa volta è vero ciò che viene ripetuto come un mantra ogni quattro anni: queste elezioni sono importantissime, anzi, le più importanti da decenni a questa parte. Perché se dovesse tornare alla Casa Bianca Trump, non soltanto cambierà profondamente il rapporto tra gli Stati Uniti d’America e i principali soggetti del teatro politico globale, ma potranno verificarsi sconvolgimenti radicali che riguarderanno in primo luogo l’Europa di cui facciamo parte. Se invece dovesse prevalere la democratica Harris, solo apparentemente assisteremmo alla prosecuzione della linea politica del presidente uscente: la sua attuale vice insiste infatti nel promettere che con lei molte cose cambieranno. Anche se in modo molto più soft che con Trump e comunque non chiarissimo, visto che la Harris sembra più concentrata sul convincere a votarla chi non vuole il ritorno del tycoon newyorkese che a delineare con precisione un proprio percorso originale.
Commette a nostro avviso un errore chi in Italia pretende di ridurre il confronto Trump-Harris al solito scontro destra-sinistra, simpatizzando per l’uno o per l’altra in base a quel pregiudizio ideologico. Dal nostro punto di vista di italiani ed europei, esistono due concretissimi motivi per cui dovremmo temere la vittoria di Trump. Sono entrambi molto seri, perché evidenziano l’assai scarsa considerazione che il “cavallo di ritorno” repubblicano ha degli alleati europei del suo Paese e più ancora dei valori e degli interessi comuni che giustificano l’alleanza con loro. Il primo riguarda l’inquietante rapporto che Trump ha con Vladimir Putin e l’evidente preferenza che dimostra per leader europei filorussi come l’ungherese Viktor Orbàn: privilegerà la promessa fatta al suo elettorato di tenere gli Usa fuori dalle guerre a quella fatta agli alleati europei di garantire la nostra sicurezza, e sacrificherà senza troppi problemi l’Ucraina consentendo a Putin di minacciarci più da vicino. Il secondo è l’attitudine, che Trump ha già manifestato nel suo precedente mandato alla Casa Bianca, a considerare i Paesi europei come concorrenti economici più che come partner strategici. Dividere l’Europa sarà una sua priorità che pagheremo letteralmente carissima, con dazi e insicurezza.
Può (e dovrebbe) stupirci il fatto che almeno metà degli elettori americani non siano scandalizzati dalla incredibile violenza della retorica di Donald Trump, un uomo che ha promesso di graziare in quanto “patrioti” gli assalitori della sede del Parlamento di Washington del 6 gennaio 2021, e che ancora due giorni fa ha detto che l’esponente repubblicana (ma non trumpiana) Liz Cheney dovrebbe essere fucilata per tradimento. Se quella giornata nerissima di quasi quattro anni fa fu l’acme della funesta polarizzazione della politica Usa, questa ormai diffusa insensibilità a ciò che dovrebbe essere intollerabile ne rappresenta il frutto più marcio.
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