Giorgia Meloni ha certo di che rallegrarsi del risultato alle regionali liguri. Lo schieramento di centrodestra si era presentato nelle peggiori condizioni possibili: il presidente Toti finito prima ai domiciliari per il reato di finanziamento illecito dei partiti, poi costretto a dimettersi con l’onta di aver accettato il patteggiamento della pena. Non bastavano queste tegole. In più, sul voto ligure si erano prolungate anche le ombre dei ripetuti infortuni del governo centrale, tra gossip imbarazzanti a carico del ministero della Cultura, polemiche sui centri per migranti in Albania e legge di bilancio troppo poco generosa su sanità e scuola. Risultato: ai blocchi di partenza la coalizione di centrodestra partiva con un handicap di 7 punti.
È vero che il centrosinistra ha fatto poi del suo meglio per farsi raggiungere. Ciò nonostante, il solo fatto di aver saputo recuperare i punti di svantaggio, che Marco Bucci accusava all’inizio della campagna elettorale, è un risultato di cui Meloni ha davvero da rallegrarsi. Le ragioni per i festeggiamenti finiscono, però, qui. Ora si apre il capitolo degli ammonimenti usciti dalle urne su cui innanzitutto la premier, ma di riflesso il vertice del suo partito e della coalizione, farebbero bene a riflettere.
Primo: è evidente che il miracolo del prodigioso recupero si deve a Bucci. Il suo profilo di amministratore con un curriculum di manager prestato - come s’usa dire, con un’espressione un po’ trita - alla politica, ha fatto la differenza. È indirettamente l’ennesima dimostrazione dello stato, per usare un eufemismo, deficitario della classe dirigente di Fratelli d’Italia. È un handicap che il partito riesce in qualche modo ad occultare nelle elezioni politiche. In quel caso, l’elettore non compie la scelta sulle persone ma sui simboli. Il deficit di classe dirigente emerge, invece, in tutta la sua drammaticità, quando il partito sceglie gli amministratori locali. In quel caso, le qualità del candidato diventano decisive.
Dal voto ligure emerge un secondo punto di debolezza del centrodestra. Una classe dirigente, che sia all’altezza dei compiti cui è chiamata una volta arrivata al governo, è vero che non s’improvvisa. Ma non aiuta ad allevarla nemmeno ricorrere ad un ripiegamento su se stessi, attingendo alla stretta cerchia degli amici fidati, invece di contaminarla, in senso positivo, con nuovi innesti di qualità, come si è provvidenzialmente fatto con l’indipendente Bucci.
Secondo: il successo del centrodestra, ottenuto, anche se con lo scarto di poche migliaia di voti, si deve alla sua maggior capacità di attrarre il voto cosiddetto moderato. Lo dicono gli alti numeri raccolti dalle liste civiche e da Forza Italia che hanno in parte prosciugato FdI. Lo conferma anche l’andamento dei flussi elettorali. L’Istituto Cattaneo di Bologna ha accertato che la maggioranza degli elettori di Italia Viva, respinta dal centrosinistra, si sono riversati proprio sul centrodestra.
Si diceva che i buoni numeri delle liste centriste hanno corrisposto a un ridimensionamento del partito della premier. Meloni dovrebbe trarne un’ulteriore, preziosa indicazione. La differenza fra il 30% circa di cui FdI è accreditato a livello nazionale e il 15% che ha raccolto in Liguria è esattamente quel 15% di elettorato moderato che vota la Meloni. Non la vota perché è post o filo fascista, ma perché da premier attua una politica che questa parte di elettorato apprezza, o per lo meno disprezza meno di quella proposta dal centrosinistra. Indirettamente, questo è un avvertimento anche per la sinistra. Senza il centro la sinistra ricade nella sindrome dell’obesità che fu del Pci. Si ingrossa, ma proprio per questo si condanna a restare immobilizzata, incapace di compiere un passo verso il centro, ossia verso il governo.
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