Papa Francesco e il suo farsi prossimo verso il prossimo

Che quell’uomo venuto dalla fine del mondo disegnasse le “curve” a modo suo – un modo non certo convenzionale -, lo si era intuito fin da quando, passate da poco le 20 del 13 marzo 2013, si affacciò alla Loggia di San Pietro.

Non fu soltanto l’abito a far intendere di che pasta fosse fatto (indossava quello bianco “di ordinanza”, senza mozzetta e senza stola, venendo meno ad una tradizione secolare), ma soprattutto il nome scelto per incarnare il successore di Pietro, il Vicario di Cristo in Terra. Scelse - mai nessuno prima di lui aveva “osato” tanto - Francesco, il Santo di Assisi, a indicare con estrema chiarezza quale sarebbe stato lo stile del proprio pontificato: farsi prossimo verso il prossimo, meglio se ultimo tra gli ultimi. Jorge Mario Bergoglio, peraltro, non aveva mai fatto mistero di quanto fosse importante per lui - e quanto dovesse esserlo per la Chiesa - stare vicino ai più deboli, agli emarginati, a chi vive sulla propria pelle le difficoltà che la vita riserva a chi non ha più una possibilità di riscatto. «La mia gente è povera - disse una volta a Buenos Aires per giustificare la scelta di vivere in un semplice appartamento e di prepararsi la cena da solo - e io sono uno di loro».

Già, i poveri. Quasi un’ossessione per Francesco, che ne ha fatto il vessillo del proprio Pontificato, proiettato verso di loro, con una voglia irrefrenabile di sporcarsi le mani con loro e per loro, immaginando una Chiesa «in uscita», capace di diventare «un ospedale da campo» per curare le loro sofferenze. «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade - scriverà nell’Evangelii Gaudium - piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».

Vide davvero lontano il cardinale brasiliano Dom Cláudio Humme quando, nell’abbracciare l’amico Bergoglio che aveva appena raggiunto il “quorum” tra i banchi della Sistina, gli mormorò all’orecchio «Non dimenticarti dei poveri». Più che un sussurro, fu una scintilla che infiammò il cuore del nuovo Pontefice: Francesco “nacque” il quel momento.

Ai tatticismi paludati è sempre stato refrattario, e una breve quanto incisiva dimostrazione del suo pensiero la diede anche pochi giorni prima di salire al soglio pontificio, durante una delle discussioni interne alle Congregazioni che precedono il conclave. Citò il Cardinale francese Henri de Lubac, teologo e gesuita come lui, morto una ventina d’anni prima, dopo aver speso la vita a tenere insieme la scienza teologica al contesto sociale e culturale della tradizione. «La mondanità spirituale, mettere al centro se stessi - disse il Primate di Argentina -, è il male peggiore che possa capitare alla Chiesa». Parlò meno di tre minuti, ma tanto bastò per far nascere l’idea nelle menti dei colleghi porporati (a cui gli “spigoli” dell’argentino erano comunque noti) che per la Chiesa universale fosse arrivato il momento di avere come guida un uomo così diretto.

Un uomo che nonostante il carattere schivo divenne un punto di riferimento per le sue prese di posizioni in favore del popolo durante la crisi economica che sconvolse l’Argentina nel 2001, un vero e proprio “terremoto” economico e civile che fece “esplodere” la povertà (arrivò fino al 45%) e i conflitti sociali. Più volte, in quel periodo, il futuro Papa si scagliò contro quella che definì “il volto idolatrico dell’economia speculativa”. Economia e politica, una miscela pericolosa per Bergoglio, da cui il Pontefice si è sempre tenuto alla larga, invitando i sacerdoti a fare altrettanto. “Miserando atque eligendo” - il motto episcopale di Bergoglio, “Guardò con misericordia e lo scelse”, mantenuto anche dopo l’elezione al Papato - dice molto dell’infinita tenerezza con cui Francesco ha sempre guardato all’uomo e all’umanità, alle sue difficoltà e alle sue aspirazioni, anche se non sempre ortodosse, tanto che la comprensione dimostrata verso tutte quelle categorie di persone tenute ai margini della Chiesa è stata spesso scambiata - frettolosamente e in maniera del tutto demagogica - per condivisione. “Guardò con misericordia e lo scelse” è un’espressione contenuta in un passaggio dell’Homilia 21 di San Beda il Venerabile, proposta dalla liturgia nell’Ufficio delle letture il 21 settembre, nella festa di San Matteo apostolo: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi” (Mt 9,9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse - miserando atque eligendo -, gli disse: “Seguimi”».

E se anche queste parole si leggono con gli occhi del cuore, tutto torna, pure quella smisurata accoglienza (ma mai troppa) che Bergoglio ha riversato verso tutti coloro a cui il magistero non consente una partecipazione piena alla vita attiva della Chiesa. “Todos, todos, todos…” - che tante polemiche ha innescato - va letto solo e unicamente in questa direzione. I “distinguo” del caso ci sono tutti, Bergoglio non li hai mai sottaciuti, o, peggio, rinnegati, ha solo cambiato la “collocazione” dei peccatori, o presunti tali: non più in strada, fuori dalla porta d’ingresso della “casa”, come si fa con gli estranei, ma subito dentro l’uscio, in locale un po’ più caldo e accogliente. Poi, per la scelta della camera dove riposare e ripensare il cammino, ci sarà tempo e modo. Banalmente (ma non troppo), è tutto qui. E tutto torna.

Torna alla misericordia, la vera cifra del Pontificato di Francesco, esercitata attraverso la compassione, la tenerezza, la consolazione. E la carità: non solo virtù, ma il volto visibile di Dio. Francesco lo ha sempre saputo: “La storia della Chiesa - scriverà nel 2016 - è storia di carità. E la carità è il cuore della Chiesa”. È da qui che il Papa argentino ha tratto la forza necessaria per fare quel che ha fatto: iniziare il Pontificato al porto di Lampedusa, sulla soglia del “cimitero più grande d’Europa”; visitare i campi di accoglienza dei profughi di Lesbo; sedere alla mensa dei poveri di Roma; telefonare a casa dei più deboli e dei malati; sfidare il silenzio di Dio in una Piazza San Pietro deserta (ma non vuota!) per implorare la fine del Covid, chiamare al telefono (anche dal suo letto del “Gemelli” e con un filo di voce) il parroco di Gaza, rasa al suolo dai bombardamenti israeliani, affacciarsi la Domenica di Pasqua a quella loggia dove tutto era cominciato dodici anni prima per salutare il suo popolo un’ultima volta. Jorge Mario Bergoglio lo sapeva e non ha avuto paura di mostrarsi in tutta la sua “nuda” fragilità, in quella che, a ben vedere, porta con sé un intenso profumo di carità verso tutti i sofferenti del mondo: se io ce la faccio con l’aiuto di Dio - sembrava dire – anche voi ce la potete fare. Una lezione di “forza mistica” che vent’anni fa, da una finestra poco distante, quella del Palazzo Apostolico, diede anche Giovanni Paolo II, sul finire della propria vita.

Un Papa rivoluzionario - Bergoglio -, a volte discusso e divisivo (scendere in Piazza San Pietro con un poncho a righe lo scorso 10 aprile è stato solo l’ultimo schiaffo ai benpensanti di tutto il mondo...), ma sempre - sempre - “rivestito” di carità. “Ubi caritas et amor, Deus ibi est”, “Dov’è carità e amore, lì c’è Dio”: Francesco lo ha sempre saputo e ce lo ha sempre ricordato. La sua bussola ha sempre puntato lì, e da lì non si è mai mossa: “I poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù”. Ricordiamocelo.

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