Le notizie positive sul mondo del lavoro italiano non mancano: dal numero di occupati, che ha superato la soglia record dei 24 milioni, alle retribuzioni che - seppure in modo parziale - recuperano il terreno perso in termini di potere d’acquisto a causa della fiammata inflazionistica del biennio 2022-2023. In questo contesto, è utile concentrarsi sui possibili punti deboli del mercato del lavoro, non per chissà quale gusto disfattista ma per prevenire eventuali criticità che prima o poi si manifesteranno. Dietro agli stessi dati sulla crescita dell’occupazione, che è più forte della crescita del Pil, si nasconde innanzitutto un calo della produttività.
Non solo. Le ore lavorate, negli ultimi trimestri, sono aumentate meno rapidamente del numero degli occupati, il che - secondo gli analisti di Ref ricerche - «potrebbe segnalare comunque alcuni primi cambiamenti nel tono della domanda, con un minore ricorso allo straordinario e un aumento del ricorso alla Cassa integrazione in alcuni settori dell’industria». Scricchiolii del genere potrebbero essere il segnale di prossime fratture del tessuto sociale qualora l’andamento economico del nostro Paese, che fino al 2023 è stato migliore della media euro, dovesse continuare a perdere slancio come sta avvenendo oggi.
Esistono inoltre elementi di debolezza del mercato del lavoro che già oggi, senza dover attendere un forte peggioramento della congiuntura, frenano lo sviluppo nazionale. Uno è tornato a denunciarlo ieri Confindustria ricordando che «più di due terzi delle imprese italiane segnalano difficoltà nel trovare le competenze necessarie per le proprie attività, con criticità particolarmente evidenti nel reperimento di profili tecnici, indicati dal 69,2% delle aziende, e di personale per mansioni manuali, segnalate dal 47,2% a livello nazionale e dal 58,9% nel settore industriale».
Le difficoltà maggiori ad assumere le figure professionali richieste si concentrano in settori come la transizione digitale e l’internazionalizzazione. L’incidenza del cosiddetto “mismatch!, termine inglese con cui si indica la mancata corrispondenza della domanda di lavoro da parte delle imprese con l’offerta da parte dei lavoratori, è più marcata nel comparto industriale che in quello dei servizi, ed aumenta in media con la dimensione dell’impresa. «A peggiorare il quadro - osserva Lucia Aleotti, vice presidente si Confindustria con delega al Centro studi - contribuiscono il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione che amplificano la carenza dei lavoratori, rendendo necessario aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e attrarre immigrati qualificati».
Quest’ultima notazione ci porta a ragionare di un altro fattore di debolezza strutturale del nostro mercato del lavoro e del sistema economico italiano in generale: il malessere demografico. L’impatto della denatalità e dell’invecchiamento, peraltro, non è soltanto quantitativo ma anche qualitativo. Come hanno scritto gli economisti Nicola Bianchi e Matteo Paradisi sulla rivista “il Mulino”, «in molte economie ad alto reddito, mentre la forza lavoro invecchiava, i salari dei lavoratori più anziani sono aumentati molto più rapidamente di quelli dei lavoratori più giovani. Ad esempio, il divario retributivo tra i lavoratori sopra i 55 anni e quelli sotto i 35 è aumentato del 61% negli Stati Uniti tra il 1979 e il 2018, e del 96% in Italia tra il 1985 e il 2019». I due studiosi ipotizzano «spillover negativi» sulla carriera dei giovani lavoratori in ragione di due specifiche «frizioni». In primo luogo, ci sono «rendite associate a una maggiore anzianità»; «ad esempio, promesse di futuri scatti di carriere fatte al momento dell’assunzione, l’accumulazione di capitale umano specifico all’azienda, o i costi di licenziamento che sono più alti per i lavoratori meglio pagati». In secondo luogo, «molte aziende sono limitate nella loro capacità di aggiungere posizioni apicali. I mercati del lavoro delle economie ad alto reddito stanno attraversando una fase di calo della produttività del lavoro, della crescita del Pil e del dinamismo industriale».In conclusione, quando aumenta il numero di lavoratori anziani in rapporto a quelli giovani, «queste due “frizioni” implicano che le aziende non siano sempre in grado di promuovere ai vertici tutti i lavoratori che ne avrebbero diritto per competenze e qualifiche. Pertanto - secondo Bianchi e Paradisi - dato che i salari dei lavoratori anziani sono più stabili in quanto ricoprono le posizioni di vertice nelle aziende, i lavoratori giovani subiscono maggiori conseguenze negative a causa dello shock demografico, ottenendo un avanzamento di carriera molto più lento». Uno squilibrio di opportunità e ricchezza che occorre affrontare quanto prima.
© RIPRODUZIONE RISERVATA