La manovra economica del 2025 si presenta con un volto già noto: quello dell’austerità. Un ritorno annunciato, forse inevitabile, ma non meno amaro per questo. A farne le spese, come sempre, sono i Comuni, anello debole di una catena che il governo cerca di stringere per adeguarsi alle regole europee. Regole che guardano al bilancio, non sempre alla vita dei cittadini. Tagli per otto miliardi di euro fino al 2037. Una cifra che non è solo un numero, ma una sentenza.
Le amministrazioni locali vedranno ridursi i trasferimenti statali, sacrificando politiche abitative, rigenerazione urbana e opere pubbliche. E questo in un Paese che già arranca nel mantenere il decoro delle sue città. I sindaci dovranno scegliere: aumentare le tasse locali o ridurre i servizi essenziali. Non serve un economista per capire che entrambe le soluzioni porteranno un prezzo salato da pagare, e quel prezzo finirà sempre sulle spalle dei cittadini.
La spesa corrente, ossia il funzionamento ordinario degli enti locali, subirà un taglio di oltre 400 milioni nel solo 2025. Una cifra che rimarrà formalmente nelle casse comunali, ma solo per finanziare investimenti futuri o tappare i buchi di bilancio. Questo sistema noto come fiscal compact, come hanno rilevato i magistrati della Corte dei Conti, aggraverà le disuguaglianze tra territori. I Comuni virtuosi potranno investire, quelli in difficoltà saranno costretti a sopravvivere. E chi ne farà le spese? Sempre i soliti: i cittadini delle aree più deboli, non solo nel Mezzogiorno.
Come se non bastasse, il governo minaccia di bloccare parzialmente le assunzioni nel pubblico impiego. Dal prossimo anno, alcune amministrazioni (i Comuni sono stati esclusi in extremis) potrebbero sostituire solo il 75 per cento del personale in uscita. Il problema si riflette in modo drammatico sulla scuola, tra docenti e personale amministrativo. E se c’è un settore in cui un Paese non può permettersi di risparmiare, è proprio l’istruzione. La Corte dei Conti e Bankitalia hanno criticato la spending review lineare, una logica che taglia una percentuale fissa della spesa per tutti i ministeri senza distinzione. E mentre tutto il resto stringe la cinghia, si salvano solo Difesa e sicurezza del territorio.
L’addizionale comunale, già una delle imposte più impopolari, rischia di salire ancora, aggravando una pressione fiscale che i cittadini trovano sempre meno sopportabile. E non è solo questione di numeri. Quando i Comuni aumentano le tasse, è la fiducia nel sistema a diminuire. E quando tagliano i servizi, è il senso stesso dello Stato che si incrina.Questa manovra economica che presto si trasformerà in legge di Bilancio, con il suo volto severo, sembra ignorare una lezione che la storia dovrebbe averci insegnato: un Paese non cresce con i tagli, ma con gli investimenti. Non si salva tagliando il futuro, ma costruendolo. E se è vero che le regole europee vanno rispettate, è altrettanto vero che ogni taglio è una ferita, e ogni ferita lascia una cicatrice.
L’Italia dei Comuni, quella che è stata per secoli la spina dorsale del Paese, si trova ancora una volta a pagare il conto. Un conto che si traduce in meno risorse, meno servizi e, soprattutto, meno speranza. Nel frattempo, la spesa sociale dei Comuni continua a crescere, spinta dall’aumento delle nuove povertà, complici invecchiamento, denatalità, fragilità delle reti familiari e corrosione del potere d’acquisto. Nidi, trasporti pubblici, biblioteche, attività museali, mense scolastiche, post-scuola, centri sportivi, assistenza domiciliare, case di riposo, assistenza domiciliare, edilizia popolare, piscine: tutto aumenta. Anche se le tasse comunali sono progressive, finiscono comunque per incidere pesantemente sulle famiglie più povere. Un’ingiustizia che, a lungo andare, non reggerà, alimentando ulteriori sperequazioni sociali. E allora, quale sarà il prezzo finale di questo equilibrio precario? E, soprattutto, chi sarà in grado di sostenerlo?
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