L’utilizzo del virtuale e gli effetti collaterali

Alcune parole dovrebbero avere, come i medicinali, un “bugiardino” d’accompagnamento: sarebbe così più facile informare la popolazione parlante e sparlante, scrivente e strafalcionante, sugli eventuali effetti collaterali, le reazioni allergiche, i rischi per la salute e i danni alle persone dovuti appunto all’uso sconsiderato delle medesime. Nessun divieto, nessuna limitazione e neppure una specifica posologia.

Solo una semplice avvertenza: le parole hanno un significato, sono indicatori che puntano alla realtà e la realtà, all’occasione, fa male. Tra le parole per le quali prevedere il “bugiardino” non andrebbero annoverate quelle che sappiamo essere “cattive”, ovvero volgari o insultanti. Per maneggiarle con la dovuta cura dovrebbe bastare un po’ di senso comune. Sono altre le parole “sensibili”, i termini impiegati senza farci pensiero - solo perché sembrano accompagnare bene i tempi che corrono - che avrebbero bisogno invece di essere rigenerati, riconsegnati al loro significato, presentati al pubblico per la loro effettiva consistenza e il loro concreto potenziale.

Tra queste parole vorremmo segnalarne nello specifico una. Questa: “virtuale”. Lo usiamo, il simpatico aggettivo, per scindere ciò che accade nell’ambito della Rete dal mondo concreto, atomico, molecolare e spesso biologico nel quale trascorriamo le nostre giornate. Questo implicherebbe una separazione netta, definitiva, quasi che un’osmosi tra le due camere – la vita e la vita riflessa nei computer o nel telefonino – sia impossibile. Invece, non solo la separazione è fragile e il confine vago: addirittura dovremmo spingerci a dire che tra i due ambiti non c’è differenza alcuna. Il “virtuale” appartiene al “reale” come un malditesta o una cannonata, ed è in grado di far danni quanto e più dell’uno e dell’altra.

Per riscontro, rivolgersi all’Inghilterra, Paese recentemente ferito da un terribile fatto di cronaca. Tre ragazzine dai 6 ai 9 anni uccise e altre ferite gravemente nella cittadina di Southport, nel Lancashire. Un attacco folle quanto feroce perpetrato, secondo quanto riferito dalle autorità, da un giovane di 17 anni, presto arrestato.

Tanto odio e tanta follia commessi nella realtà non sono bastati: altra ferocia e altra rabbia hanno dovuto accumularsi nella sacca “virtuale” della società che, senza prova alcuna, ha voluto individuare nell’immigrazione e nella religione islamica la colpa del sangue sparso. Ed ecco che in un baleno il “virtuale” è diventato reale: le parole d’odio sparse nella Rete – e alimentate dalla destra estrema, segnatamente da Tommy Robinson della English Defense League e dal veterano “brexitaro” Nigel Farage – hanno attirato nelle strade centinaia di manifestanti, protagonisti di duri scontri con le forze dell’ordine, in un rigurgito xenofobo di proporzioni allarmanti. Al punto che la magistratura ha deciso di violare la regola che tutela l’identità dei minori rivelando in via eccezionale quella dell’omicida – nato in Inghilterra da genitori originari del Ruanda – nel tentativo di contrastare la disinformazione dilagante.

La gente nella folla si sente una cosa sola, scriveva Elias Canetti nel suo “Massa e potere”, al punto da superare ogni paura, perfino quella della morte. Ma prima di superare la paura, bisogna provarla: ed è proprio sulla paura che fa leva il veleno virtuale dispensato da soggetti come Robinson e Farage. Paura che si supera prima nell’alleanza online, nel coro di chi si dà ragione a vicenda, giocando semmai a superarsi in sarcasmo, rancore e intolleranza, e poi nel ritrovarsi fianco a fianco in strada. E il passo compiuto è stato breve, brevissimo, quasi inesistente. La paura è tale che c’è il bisogno fisico di una canea quotidiana, cosicché ogni pretesto vien buono. Ecco allora scoprirci esperti di pittura rinascimentale per difendere l’Ultima Cena oppure genetisti per trattare di fair play nel pugilato, così come, a comando, tutti analisti dei fenomeni migratori e, soprattutto, brutali campioni di una presunta identità culturale e religiosa sempre sbandierata e difesa ai danni di chi è più debole.

Il bello – anzi, il brutto – è che i problemi sociali esistono davvero, i fenomeni economici, politici e perfino climatici pongono questioni pressanti: nessuno – o pochi – però se ne occupano. Meglio entrare nel ring-piedistallo del disprezzo – questo sì dominato da regole ingiuste – sul quale scambiarsi prima battute, poi insulti e infine bastonate. Resta una sola certezza: alle Olimpiadi dell’universo l’uomo ha ancora una volta vinto la medaglia d’oro per la stupidità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA