Anche in Italia è in corso una guerra: la proverbiale guerra tra poveri. Ed è chiaro dove vengano formate le schiere di soldati che ogni giorno la combattono nei posti di lavoro (in esaurimento), sui campetti di periferia delle squadre giovanili, sulle strade che a volte si trasformano in un ring dove sfogare rabbia e frustrazioni.
La scuola è il formidabile incubatore di una disgregazione sociale, di un’incultura e di una disumanizzazione dilaganti, che sono a monte della crisi che ci affligge. Come sempre, con le debite, virtuose - e a volte persino eroiche - eccezioni.
Questo Matteo Renzi sembra averlo, finalmente, capito: «La scuola che cambia, cambia l’Italia», ripete il premier affezionato agli slogan. Peccato che l’Italia repubblicana abbia progressivamente svuotato le scuole del loro ruolo sociale, oltre che di risorse economiche, tolte anche a quell’altro “motore del paese” (per citare un’altra espressione cara all’ex sindaco di Firenze), che è la ricerca universitaria. Se gli Stati Uniti, da Lincoln a Obama passando per Roosevelt, nei tempi di crisi hanno sempre fatto quadrato attorno al settore dell’istruzione e della ricerca, ritenendolo l’unico irrinunciabile fortino di una nazione, l’Italia proprio in quel fortino va inscenando da tempo la più triste delle guerre civili. Quella tra docenti e famiglie.
Anche questo non è sfuggito a Renzi: «Stiamo facendo passare l’idea - ha detto - che se a scuola c’è un problema con un alunno è comunque colpa dell’insegnante e mai dei ragazzi. Quando andavo a scuola io, se l’insegnante chiedeva di parlare con i miei genitori, loro mi alzavano da terra...». Appare un po’ meno chiara la strada per uscire da questo clima in cui rissosità e impotenza la fanno da padrone. Senso di responsabilità e franchezza, senza dimenticare altri valori fondamentali come il merito e la solidarietà, dovrebbero essere fonte di ispirazione e oggetto di condivisione tra tutte le componenti del pianeta a scuola, a prescindere da lato della cattedra in cui si ritrovino sedute (già, perché, incredibile a dirsi, a cento anni dalla pubblicazione delle opere “rivoluzionarie” di Maria Montessori, la lezione frontale è ancora alle base della pedagogia e della didattica italiane... anche su questo la “Buona scuola” auspicata da Renzi dovrà interrogarsi e cambiare). Tornando agli interventi legislativi con cui il governo vorrebbe proiettare la scuola italiana, e con lei il Paese intero, nella “serie A” del mondo globale, alcune linee guida sembrano buone e, non a caso, furono già tentate (senza successo) da un altro ministro di centrosinistro, Luigi Berlinguer, la cui riforma della scuola rimase monca, stritolata da “veti” contrapposti come tutte le altre che hanno cercato di togliere dall’istruzione italiana, pubblica e non, l’impronta della riforma Gentile del 1923, realizzata non a caso sotto una dittatura. Ora è il momento di dimostrare che noi italiani siamo abbastanza maturi da riuscire a riformare la scuola anche in quell’istituto, chiamato democrazia, che permette a tutti di dire la propria opinione. Smettiamo di comportarci come i bambini dell’Asilo Mariuccia (che peraltro andrebbe riscattato dalla citazione proverbiale, ricordando la funzione innovatrice che ebbe nella Lombardia del primo Novecento). Docenti abilitati solo per concorso, magari anche assunti direttamente dalle scuole (con dirigenti e consigli di istituto dotati di poteri di selezione del personale al pari dei director e school board inglesi), promossi per merito, come i loro studenti, con scatti di stipendio, appaiono proposte da affinare e consolidare. Così come quella di un finanziamento delle scuole attraverso il 5 per mille, davvero trasparente e volontario, non come molti dei contributi che vengono chiesti dai singoli istituti alle famiglie.
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