L’inerzia europea sulle bombe di Netanyahu

Nella storia travagliata del conflitto tra israeliani e palestinesi, tra le tante incerte e complicate, una cosa è sicura: la violenza non ha mai, mai, mai prodotto i risultati sperati.

Per quanto faccia orrore dirlo, bisogna riconoscere che la strategia bellicista di Benjamin Netanyahu sta resistendo alla prova del tempo. Falciando oltre 40mila palestinesi, le forze armate di Israele hanno devastato Gaza, riducendola in macerie e, di fatto, rioccupandola manu militari. Una volta fatto il deserto a Sud, Netanyahu si è rivolto a Nord, al Libano delle milizie di Hezbollah, approfittando della supremazia aerea per lanciare attacchi sempre più micidiali, fino a quello delle scorse ore, definito “preventivo” rispetto a un’offen siva delle milizie filo-iraniane che poi si è materializzata ugualmente nel lancio di centinaia di razzi. Nel frattempo, ben conscio che un vero attacco a Israele provocherebbe l’intervento degli Usa, anche l’Iran ha dovuto metabolizzare l’assassinio mirato del leader palestinese Haniyeh e rinviare sine die quella vendetta tanto sbandierata a parole.

Naturalmente, tutto questo è reso possibile dall’appoggio internazionale, dell’internazionale che più conta, di cui gode lo Stato ebraico. Gli Usa continuano a fornire armi e quattrini e, come si diceva nel caso dell’Iran, a proiettare l’ombra minacciosa della loro potenza ogni qual volta la tensione sale oltre il livello di guardia.

Certo, la Casa Bianca è spesso intervenuta per consigliare moderazione e anima le trattative per una tregua a Gaza. Ma dalla strage terroristica compiuta da Hamas il 7 ottobre scorso a oggi, i buoni consigli di Biden e gli innumerevoli viaggi in Medio Oriente del segretario di Stato Blinken hanno prodotto poco o nulla, dal punto di vista dello scontro armato. E le campagne elettorali di Trump e della Harris fanno pensare che nulla cambierà in futuro. L’Unione Europea, troppo preoccupata per l’Ucraina e comunque priva di muscoli, tace. Quindi acconsente.

Com’è ovvio, dire tutto questo non significa assolvere Hamas o l’Iran e i suoi vassalli Houthi o Hezbollah, con le loro politiche reclusive e violente e la totale incapacità di concepire una strategia che non abbia alla base l’uso della forza. Significa solo far notare che nulla è stato fatto, dal cosiddetto Occidente, per andare alla radice del problema, ovvero la sorte dei palestinesi, e provare davvero a risolverlo. È vero il contrario: per molto tempo sia gli Usa sia l’Europa hanno assistito inerti agli sforzi di Netanyahu e dei suoi per rendere impossibile l’unica soluzione che, a parole, tutti sostengono, ovvero quella “due popoli due Stati”, di fatto incoraggiando quella follia politica. Che ha spinto non solo i palestinesi nelle braccia degli islamisti di Hamas e il Medio Oriente in uno stato di instabilità permanente, ma ha ormai costretto tutti a sopportare la guerra come l’unico strumento per contenere la questione. Trasformandoci tutti, alla fin fine, in piccoli discepoli di Netanyahu.

È una constatazione che può indurre alla disperazione. Perché nella storia travagliata del conflitto tra israeliani e palestinesi, tra le tante incerte e complicate, una cosa è sicura e facile da capire: la violenza non ha mai, mai, mai prodotto i risultati sperati. Non il tentativo di pulizia etnica che ha accompagnato la nascita di Israele, non le guerre arabe contro Israele, non il terrorismo palestinese, non la repressione e il colonialismo israeliano, non lo stragismo di Hamas e nemmeno il suprematismo bianco dell’ultimo governo Netanyahu. Il problema è sempre quello ed è sempre lì: di fronte all’insediamento degli ebrei, che cosa bisogna fare dei palestinesi? L’unica differenza rispetto al 1948 è che tutto è più violento, crudele e insensato.

Tutto questo dovrebbe illuminare chi ha il potere di decidere. Ma di Gandhi e Mandela in giro ce ne sono pochi, mentre abbondiamo di Alì Khamenei e di Netanyahu. O di sor Tentenna come Joe Biden, che ha speso infinite parole di commiserazione per la popolazione di Gaza senza avere il coraggio di prendere una decisione che fosse una, anche solo simbolica, anche solo tre bombe in meno per gli arsenali di Israele.

Poiché fabbricare bombe e mandare gente a morire non è poi così difficile (e la Russia dovrebbe, almeno in questo senso, servirci da monito), non possiamo aspettarci grandi cambiamenti nel prossimo futuro.

La verità resta una: la guerra non è la politica condotta con altri mezzi, come diceva Von Clausewitz. È il sostituto più comodo della politica.

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