Nei giorni scorsi si è congedata da noi Marta Badoni, ultima figlia dell’ingegner Giuseppe Riccardo Badoni e discendente diretta di una dinastia fuori dal comune, che aveva mosso i primi passi ai tempi dei vecchi opifici sul Gerenzone per poi contribuire alla ricostruzione del Paese nel dopoguerra, tirando su dal nulla ponti e viadotti in giro per il mondo, e realizzando gasdotti e locomotori da far invidia ai campioni siderurgici tedeschi.
Ecco, devo dire che mi ha sempre colpito l’idea che quella formidabile famiglia di capitani d’azienda, giunti alla prova del nove della modernità, non abbia poi tirato i remi in barca negli anni Cinquanta. Potevano farlo, ne avevano tutto il diritto: godersi i profitti, limitando i rischi. Invece no, sentivano pressante un richiamo collettivo a voltarsi indietro le maniche, avvertivano l’impellenza di portarsi dietro (intendo fin dentro il progresso, nel benessere) quanti più pezzi di comunità possibile. Come? Prendendosi cura dell’istruzione dei propri dipendenti, creando corsi di istruzione per i loro figli e nipoti, in modo da ricevere manodopera già formata e di alto livello. La scuola Badoni nasce proprio in quella stagione e precisamente da quella volontà. Ma non è l’unico esempio.
Già negli anni Quaranta a Lecco erano stati avviati i corsi professionali del cosiddetto Elip, che poi sarebbe diventato l’attuale Fiocchi. Chi l’ha voluto? Altri imprenditori, e nello specifico la Fondazione Acciaieria e Ferriera del Caleotto. Gli industriali locali erano convinti che il rinnovamento dei processi produttivi rendesse urgente adeguare la didattica, la formazione culturale e tecnica dei giovani lavoratori. Da quelle scuole uscivano uomini, prima ancora che operai. Professionisti insostituibili e ben inquadrati in un ruolo chiave dei processi produttivi, e non factotum senza arte né parte. Diplomati che in un battito passavano dalla fucina del sapere all’officina del fare.
Insomma, non voglio certo ergermi a storiografo dell’industria lecchese (potrebbe essere interessante discettarne, ma non è il momento né il luogo). Mi preme tuttavia evidenziare che a Lecco il cambiamento sociale è sempre stato prodotto da un’offerta didattica rinnovata, dall’ambizione di poter formare professionisti di alto livello. In definitiva, da un comune sentire degli imprenditori e della politica, delle categorie produttive e di quelle scolastiche.
Oggi le nostre scuole sono scuole di eccellenza. La corrispondenza diretta tra numeri e valore umano non mi appassiona dai tempi delle pagelle, ma in questo caso faccio un’eccezione: le statistiche della Fondazione Agnelli sono disarmanti e, a Lecco, inquadrano un’eccellenza assoluta praticamente in ogni campo del sapere.
La domanda è: riusciamo a capitalizzare questo valore? I migliori tra i nostri imprenditori riescono ad avere accesso diretto a questi giovani Sinner della tecnica, o forse manca ancora un ultimo segmento di ponte, un ultimo tratto di viadotto per unire due mondi che dovrebbero andare a braccetto come gli amanti di Chagall?
Il dna lecchese parla chiaro. E’ sufficiente che un solo imprenditore alzi lo sguardo per contagiare il tessuto economico, e poi quello politico (certo, un tempo c’erano i Falck gli Amigoni i Calvetti i Bonaiti, i Bartesaghi e oggi i Di Maio, lo riconosco) e infine la società e la forza lavoro di un intero territorio. L’equazione scuola lavoro è una cifra distintiva delle associazioni imprenditoriali, mai tradita e sempre rinnovata e non c’è motivo di dubitare che il nuovo corso di Confindustria varato in queste ore saprà camminare in quel solco che ha permesso a Lecco e al suo territorio di essere in tempi neppure troppo lontani, tra le capitali dell’industrialesimo.
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