L’industria delle armi un record che fa paura

Oggi va benissimo, ma domani andrà ancora meglio. L’industria globale degli armamenti sfonda un record dopo l’altro. L’anno scorso i ricavi sono aumentati di 632 miliardi di dollari, cifra pazzesca se si considera il fatto che è stata prodotta in un solo anno. È la velocità con la quale corre la spesa militare a far paura. E quello del 2023 è il più rapido aumento annuale degli ultimi 15 anni.

Sono i dati dell’ultimo Rapporto del Sipri di Stoccolma, il più autorevole istituto di ricerca sugli armamenti del mondo, pubblicato pochi giorni fa e praticamente ignorato da tutti, che indicano un drammatico e fulmineo incremento, segno della straordinaria capacità delle aziende di adattarsi alla domanda di guerra legata ai conflitti in Ucraina e a Gaza. C’è bisogno di armi poco sofisticate, ma pronte all’uso, produzioni semplici e immediatamente disponibili. Così sono state le aziende più piccole e flessibili che hanno trascinato in alto il business della morte, pronta risposta alla domanda di esplosivo e di munizioni per fucili e mitragliatori. Più indietro nella classifica si trovano le produzioni più sofisticate, i sistemi d’armi più complessi ai quali servono più tempo nell’adattamento agli scenari e catene di forniture più lunghe e articolate.

I cadaveri modificano il mercato e lo rendono più efficiente. Gaza è diventato il nuovo paradigma a cui guardare per comprendere le dinamiche mercantili della morte. Per radere al suolo la Striscia e per fiaccare la resistenza dei suoi abitanti, Israele ha impiegato una quantità impressionante di bombe e di proiettili di vario calibro, che hanno portato nelle casse dei tre produttori israeliani 13 miliardi di dollari. Ottime performance le ha registrate anche la Turchia con la vendita all’Ucraina dei suoi droni Baykar, semplici, di facile uso e micidiali. Le aziende di Ankara in un solo anno hanno visto schizzare in alto del 24% i propri ricavi. Poi c’è la domanda di artiglieria e relative munizioni. Qui i primi della classe sono tedeschi, svedesi, polacchi, norvegesi e cechi. Il colosso tedesco Rheinmetall ha aumentato in pochi mesi la produzione di proiettili da 155mm e quella dei Leopard per soddisfare la domanda di Kiev. L’economia tedesca insomma ripara i guai delle automobili con i carri armati. In Asia la tendenza segue la stessa logica ed è il timore di conflitti regionali a gonfiare i bilanci.

I quattro maggiori produttori di armi sudcoreani hanno espanso i ricavi del 39%, i tre maggiori produttori giapponesi del 35%. Tokyo dalla fine della seconda guerra mondiale non si è mai riarmato in modo così massiccio. Pechino invece un poco ha rallentato con ricavi in aumento solo dello 0,7%. Ma la cifra non deve trarre in inganno poiché negli ultimi anni la Cina ha infilato un record dietro l’altro con numeri a due cifre e il contenimento della spesa militare va letta nell’ambito della generale frenata dell’economia cinese. In termini assoluti resta tuttavia una cifra di spesa ragguardevole: 103 miliardi di dollari.

Una decrescita a livello globale della spesa militare non si vede all’orizzonte. Il Rapporto del Sipri spiega anzi che la domanda è in crescita per tre motivi: sicurezza globale in netto peggioramento, insicurezza alimentare sempre più diffusa a causa dei cambiamenti climatici e minor efficacia della diplomazia.

Per l’industria militare è la tempesta perfetta a cui si sta attrezzando anche con un reclutamento di personale a tutti i livelli. L’ottimismo e la fiducia nelle armi va di pari passo allo smarrimento del dialogo e al discredito del negoziato per la composizione delle controversie. Per Francesco, l’unico che se ne preoccupa, è «un’ipocrisia»: «Parlare di pace e giocare alla guerra».

© RIPRODUZIONE RISERVATA