Passati i quaranta, l’unica cosa che resti da fare a una persona con un minimo di sale in zucca è non diventare una macchietta.
Questa verità un po’ subliminale, ma solida come la roccia, ha ottenuto una nuova conferma da un sondaggio pubblicato dal quotidiano inglese “The Guardian”, e ripreso da “Repubblica”, che fissa il momento della vita in cui si comincia a diventare insensibili, freddi e indifferenti: 44 anni. Da lì in avanti si stendono le praterie dell’età del disincanto. Il dibattito - molto accattivante, anche se un po’ fanfarone, a dir la verità - è ad altissimo
rischio, perché basta un attimo per infarcirlo della consueta pletora di luoghi comuni: eh sì, addio alla giovinezza, agli entusiasmi puri e cristallini, alla toccante insania delle fanciulle in fiore che tutte le strade esplorano e tutti i sentimenti sperimentano e tutte le pulsioni assecondano perché, per loro, ogni visione del mondo è aperta e possibile e praticabile visto che il momento del rito di passaggio verso l’età adulta non solo è tanto lontano ma addirittura incomprensibile con tutte le sue rughe, i suoi livori, i suoi grandi freddi colmi di frustrazioni, meschinità e piccole vendette ambigue da omiciattoli falliti e, insomma, signora mia, la vita è un lampo e noi l’abbiamo già sprecata e i fiori mai colti e le parole mai dette e tutto quel lacrimoso bla bla bla con il quale condiamo i nostri dialoghi da pièce freudian-situazionista alle cene in piedi tra amici che poi, alla fine, forse così tanto amici neppure sono.
Ecco, quando arriva l’età del cinismo tutto è perduto e da lì in poi si srotola un lungo e amarissimo piano inclinato che ci precipita nel regno della grettezza, della solitudine e della caduta di qualsiasi entusiasmo vitalistico o solidale. È vero che nell’accezione comune il termine cinismo ha assunto una piega negativa, legata al profilo di un personaggio privo di valori, ideali e soprattutto scrupoli: il classico bandito – particolarmente irritante nella versione italiana caciarona e cialtronesca – che, come ricordava lo storico Carlo Cipolla nel meraviglioso trattato sulla stupidità umana, crea il proprio vantaggio causando al contempo il danno degli altri. Beh, se è così, è ben difficile essere in disaccordo: basta guardarsi attorno in qualsiasi posto di lavoro, e non solo, per individuare tutta un’umanità perfettamente allineata a questo modello.
Ma se si torna invece alla più stretta radice greca del termine cinismo, allora le cose cambiano, perché questo è un individuo che cerca la felicità tramite un forte rigore morale, disprezza gli agi e le comodità, è indifferente ai bisogni materiali e, soprattutto, non crede alla bontà e alla sincerità umana. Se il vero cinico è questo, allora cambia tutto: è un tipo di uomo che vuole imparare dalle esperienze che gli riserva la vita e proprio per questo motivo è in grado di capire se gli ideali per i quali si struggeva quando era ragazzetto fossero veramente tali e non illusioni o autoinganni di uno che non aveva capito nulla del mondo. Alla fine, resta sempre fondamentale Machiavelli (un maledetto cinico pure lui?): la realtà effettuale è il bastione su cui si edifica qualsiasi progetto che abbia la speranza e la presunzione di durare e contro il quale si infrangono invece le fanfaluche e i velleitarismi del tempo delle mele. D’altronde anche Mussolini da giovane era socialista, Berlusconi interista e Clint Eastwood un pessimo attore: poi, però, si cresce, si diventa grandi…
In questo senso, il cinismo che inizia a prevalere dopo i 44 anni non solo non è un difetto, ma diventa addirittura una necessità, un’ancora di salvezza contro quel tarlo maledetto della natura umana, quel bovarismo d’accatto che tende a farti vedere le cose non per quello che sono, ma per quello che dovrebbero essere secondo le nostre testoline petulanti da aruspici da mercato rionale. Per risolvere un problema, prima bisogna conoscerlo, non negarne l’importanza o l’esistenza. A quel punto sì che è legittimo, e non patetico, emozionarsi e sognare. Quest’epoca fanghigliosa non produce invece altro che bamboccioni mai cresciuti che giocano ancora a fare i ragazzini pensando di poter fermare il tempo grazie a uno smartphone pieno di faccini che ridono o a una sgommata da sabato sera davanti al bar, che a vedere certe sciurotte in clamorosa crisi di identità scimmiottare (con esiti penosi) lo slang delle liceali o, peggio ancora, scimmiottare (con esiti penosissimi) le minigonne delle universitarie viene veramente voglia di spedirle a due a due in miniera a sbadilare. Uno di vent’anni che si balocca con i castelli in aria fa tenerezza, uno di trenta inizia a far prudere le mani, uno di quaranta o addirittura di cinquanta fa ridere. Anzi, fa pena. Una macchietta, appunto.
Ma perché bisogna ridursi così? Perché dobbiamo tutti quanti coprirci inesorabilmente di ridicolo? Perché non siamo capaci di accettare il flusso delle cose? Non è necessario aver preso una laurea alla Normale o leggere tutte le sere i Pensieri di Marco Aurelio – “tu ti dimenticherai di tutto, tutti si dimenticheranno di te” – per capire che ogni cosa ha il suo tempo e poi ci pensa lui a sbriciolare tutto? C’era arrivato quel pastore analfabeta dell’Asia e non dobbiamo capirlo noi fenomeni multimediali? Vogliamo fare tutti la fine del professor Aschenbach, che agognava – patetico e grottesco – il suo angelico Tadzio nelle pagine di “Morte a Venezia” pensando che fosse sufficiente una tintura di capelli per fissare il tempo che passa in un’immagine perfetta?
La soluzione è un’altra, cari over quaranta. Ricordatevi bene che proprio il sondaggio del “Guardian” afferma con assoluta e incontrovertibile certezza scientifica che è solo dopo i 45 che si inizia ad amare con piena soddisfazione e che è solo dopo i 46 che si assapora la vera felicità. E non a caso. Chi scrive questo pezzo, ad esempio, ha 48 anni. E straordinariamente ben portati…
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