Le sfide del mercato ed i debiti dell’Italia

Al Consiglio europeo informale di Budapest i capi di Stato e di governo accolgono con favore i rapporti di Enrico Letta e Mario Draghi su mercato e competitività. Nel documento finale in dodici punti si prevede una semplificazione delle procedure per le aziende produttive e di servizi, l’impegno a investire in ricerca e sviluppo almeno il 3% del pil entro il 2030 e poi un regime di agevolazioni per le start-up ovvero per la trasposizione delle innovazioni di laboratorio in realtà di impresa. In Europa però non siamo tutti uguali. Prendiamo il 3% del pil per la ricerca e lo sviluppo. È ipotizzabile che all’Italia riesca un impegno così gravoso con 80 miliardi di spese per il servizio del debito per il solo 2023? Gli interessi pagati dallo Stato italiano sono già ora il 3,2% del pil ovvero più di quanto lo Stato spenda per le politiche sociali e la famiglia calcolate in 63 miliardi di euro.

Il 2% per le spese militari richiesto dagli americani e adesso all’ordine del giorno anche degli europei è già un problema per la presidente del consiglio italiana. A Budapest all’urgenza di Mario Draghi di aumentare l’impegno finanziario per la difesa Giorgia Meloni risponde che ci vuole “flessibilità”. Il governo italiano chiede che le spese militari non vengano conteggiate nel deficit come attualmente previsto dal Patto di stabilità.

Il Commissario alla difesa Andrius Kubilius non esclude la possibilità e si mostra disponibile ma i guardiani del faro finanziario non siedono a Vilnius in Lituania. Ciò che frena lo slancio europeo è la competizione nazionalista all’interno dei 27.

Se si rimane nella condizione attuale gli Stati che hanno maggiore spazio fiscale possono investire di più e quindi aumentare il proprio potere. Per tenere il passo degli investimenti i Paesi più indebitati dovrebbero ridurre l’assistenza sociale, le pensioni, la sanità. Nessun governo può intraprendere questa strada. Neanche la Germania. Si prevedono, secondo i calcoli della Confindustria tedesca BDI, 1400 miliardi di investimenti per i prossimi sei anni. Un terzo dovrebbe venire dalle casse dello Stato. Un carico finanziario che la Repubblica Federale potrebbe sostenere con un debito pubblico al 64% del pil, cioè di fatto la metà di quello italiano. Ma bloccato dal vincolo di pareggio in bilancio il cancelliere Olaf Scholz ha scelto la crisi. Messo alle strette tra gli alleati di governo liberali e la riduzione dello Stato sociale si è appellato alle urne. La Danimarca ha un’esposizione finanziaria pubblica del 29% del pil e guarda da sempre con attenzione a Londra, a Washington e nell’Ue a Berlino.

L’emissione di titoli comuni europei diventa per Copenhagen un assegno in bianco. La differenza fra Nord e Sud del continente è fatta anche di fiducia. I concorrenti esterni dell’Unione europea lo sanno e giocano sulla sua debolezza strutturale. Pechino impedisce alle proprie imprese di investire nei Paesi che hanno votato a Bruxelles per i dazi sulle auto elettriche cinesi. Cosí Leapmotor che con Stellantis aveva scelto la Polonia deve cambiare Paese. La Germania con la Slovacchia aveva votato contro e quindi può diventare un’alternativa. Ecco un modo per dividere e creare risentimenti fra gli Stati dell’Unione.

Sul fronte americano si attendono dazi sui prodotti europei. E anche qui Trump avrà buon gioco per colpire la produzione tedesca di auto e favorire con dazi minori altri Paesi come per esempio l’Italia. Il problema dei governi europei sono i loro elettori. Hanno paura di perdere quanto raggiunto in questi anni e quindi si attaccano al nazionalismo come ultimo baluardo di difesa. La pensano come la maggioranza degli americani con la differenza che la Germania non è l’America e l’Italia non è la Cina . Contano i singoli Stati ma in Europa solo se uniti.

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