Le scuole dimenticate e il gelo nelle aule

Qualcuno potrebbe pensare che, considerata la mia veneranda età (intendiamoci, la genia Calvetti mi promette ben altri orizzonti), sia piuttosto raro che mi stupisca di qualcosa. In effetti ne ho viste tante e in tutti i campi di quella tavolozza di contraddizioni che è l’umanità, ma devo ammettere che il dono prezioso dell’incredulità e la somma attitudine alla perplessità non mi sono ancora state sottratti. Anzi, quanto più avanzo nel mio viaggio, tanto più a provocarmi sobbalzi improvvisi sono le minuterie del mio tempo, le frattaglie delle comunità locali. Quelle che il premio Oscar Paolo Sorrentino chiamava aulicamente “gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza” e che io, più prosaico fin dai tempi del liceo (ma i versi, ovviamente in latino, di Orazio restano in cima ai miei gusti, da “circoletto rosso” secondo il lessico del compianto Rino Tommasi), preferisco definire le piccole amabili deficienze (in senso etimologico, s’intende) che vedo e sento accadere quotidianamente.

Non ho quindi potuto chiudere un occhio davanti alla notizia che l’asilo comunale di San Giovanni a Lecco abbia dovuto rimandare a casa i bambini causa clima artico nelle aule, prolungando di quasi una settimana le vacanze di Natale dei pargoli. Non nasco idraulico e non tocca a me indagare sulle cause del disagio. Casomai, mi preme sottolineare quanto possano pesare su una normale famiglia quattro giorni extra di vacanza dei figli. Permessi dal lavoro, nonni che disdicono impegni, babysitter arruolate con la stessa fretta e disperazione di un Cristoforo Colombo che deve riempire di mozzi le tre caravelle. Vogliamo convincerci che tutto questo è normale? Proviamoci, ma, per quanto mi riguarda, non mi avrete nelle timide e irritanti schiere dei benaltristi. Ci sono mille altre questioni al mondo, è vero, ma è dalla cura di tutti i giorni che muove i passi il senso di civiltà di una comunità locale.

Aggiungo un’altra immagine che mi è molto cara. Tempo fa mi è capitato di muovermi in auto verso la Bergamasca (da passeggero, va da sé) a orari antelucani. Nel semibuio di una notte che stentava a chiudersi, vedevo riversarsi lungo le strade, sulle banchine delle stazioni e davanti alle pensiline dei bus una valanga infinita di giovanissimi studenti. Ragazzini di dodici, tredici, massimo quindici anni, costretti a svegliarsi all’alba (anzi, prima), prendere un bus o un treno alle sette e presentarsi infine a scuola alle otto. Ora, mi chiedo e vi chiedo: ma è vita questa roba? Non scherziamo.

Pensate ai ragazzi della Valsassina, dei paesini all’ombra del Curone. Pensate a un meratese o un colichese che intende scegliere un percorso didattico diverso da quello che offre il suo territorio. Ma ha senso obbligare i nostri studenti ad alzarsi dal letto agli orari dei panettieri e dei tramvieri e sperare poi che vedano la scuola come un luogo di luce, di applicazione appassionata, di concentrazione continua? Verrà il tempo dei sacrifici, ma vogliamo tutti quanti immaginare un’istituzione scolastica che sia luogo di opportunità e di accoglienza?

Gli sforzi che tante istituzioni, aziende e associazioni economiche del Lecchese stanno compiendo vanno nella direzione di avvicinare la didattica all’impresa, il tessuto economico provinciale alle sue “fucine” di umanità. Non sarà sufficiente se le scuole lecchesi (e italiane, s’intende) non prendono la via dei Campus stranieri (e non solo stranieri, visto l’esempio del nostro Politecnico), diventando luoghi ospitali, aperti, nei quali vivere tempo di qualità, orari umani, condizioni sociali e ambientali da Paese avanzato. Se la scuola è ancora maestra di vita occorre conciliare i termosifoni con la didattica, un nuovo umanesimo con la tecnologia, un presente incerto e malaticcio con un futuro di sana e robusta costituzione etica e civile.

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