La verità non è violata solo dalle falsità: può essere ugualmente oltraggiata dal silenzio». Seguendo la linea tracciata da questa riflessione del filosofo dell’800 Henri-Frederic Amie, si potrebbe arrivare a dire che 160 deputati della Repubblica italiana, mercoledì, hanno posto basi solide per fare dell’oltraggio alla verità una norma del Codice. Avete presente la notizia – l’abbiamo pubblicata ieri – del truffatore di anziani per il quale un giudice non ha concesso l’arresto chiesto dalla Procura, ritenendo sufficiente l’obbligo di dimora a Napoli? Bene, quella notizia avreste potuto non leggerla affatto. E non per una nostra decisione, quanto piuttosto per volere della maggioranza dei parlamentari italiani. Spieghiamo: mercoledì l’ultima votazione della Camera è terminata con l’approvazione di un emendamento destinato a cambiare il Codice di procedura penale. In particolare l’articolo sulla pubblicità degli atti giudiziari. In sostanza, su sollecitazione di un deputato di Calenda e con il supporto di gran parte della maggioranza (tra i comaschi l’unico a votare a favore è stato il deputato di Forza Italia Paolo Emilio Russo, peraltro giornalista, contraria Chiara Braga del Pd, assenti gli esponenti leghisti) la Camera ha votato il divieto, per i cronisti, di pubblicare in tutto o in parte i contenuti delle ordinanze di misura cautelare prima della chiusura delle indagini o prima dell’udienza preliminare.
Qualche esempio per comprendere la portata del provvedimento: dell’operazione Infinito, quella che ha portato a centinaia di arresti per associazione mafiosa in Lombardia, avreste letto poco o nulla nell’immediatezza dei fatti. E avreste dovuto attendere quasi un anno, a inchiesta chiusa (peraltro senza che nulla, nel frattempo, fosse cambiato nella sostanza delle accuse) per sapere i motivi per i quali i vostri vicini di casa, il vostro medico o il vostro ristoratore di fiducia fossero spariti dalla circolazione. Stesso discorso per la strage di Erba. O per l’arresto di quel sindaco che, sul lago, finì in carcere per corruzione.
Facile intuire il pensiero di qualcuno: “Era ora! Voi giornalisti pensate di poter rovinare la vita delle persone…”. E allora, prima di entrare nel vivo della questione, un po’ di sana autocritica. Nel corso degli ultimi anni diverse testate e molti colleghi hanno abusato di quel sacrosanto diritto che è la “libertà di stampa” e trasformato atti giudiziari in vere e proprie armi di distruzione. Ma la reazione più sbagliata per combattere un abuso è proibire per legge pure il comportamento lecito altrui.
Qualche coordinata per comprendere le dinamiche della cronaca giudiziaria. La segretezza degli atti è stata introdotta dal legislatore non perché rimanessero segreti gli arresti, ma per tutelare esclusivamente l’indagine stessa. Nel momento in cui l’indagato viene a conoscenza degli atti che lo riguardano, l’esigenza di segretezza cade. Questo, ovviamente, non vuol dire che può valere ogni cosa. All’interno di un fascicolo ci sono fatti che non hanno nulla a che vedere con i reati contestati ed è giusto restino riservati. Su questo la categoria dei giornalisti ha molto di cui doversi interrogare. Ma anziché costringere dei professionisti – ricordiamoci che chi fa questo mestiere è iscritto a un ordine e deve sottostare a norme deontologiche, oltre che penali e civili – ad autoregolamentarsi con serietà e rigore, si sceglie la scorciatoia più facile per tutti, soprattutto per chi ha qualcosa da nascondere: il silenzio. E lo si propaganda come battaglia di civiltà. Nulla di più falso.
Il silenzio sugli atti d’indagine non più segreti non è solo un oltraggio, ma è un pericolo per la tenuta stessa delle regole democratiche. Primo pericolo: si perderebbe quel controllo indispensabile che la diffusione delle notizie ha sull’attività di istituzioni pubbliche quali la magistratura e le forze di polizia. Certo, in una realtà come l’attuale può sembrare poca cosa, ma cambiasse il vento (e il secolo scorso è successo) ci sarebbe di che preoccuparsi. E i diritti, vale la pena ricordarlo, vengono decisi in tempo di pace per potersi difendere quando scoppiano i conflitti.
Secondo pericolo: si delegherebbe a chi non si occupa di informazione la decisione su cosa sia o meno lecito diffondere. E, soprattutto, si darebbe questa delega a chi, alla fine, deve rispondere alla politica. Già oggi, dopo l’introduzione di un’altra norma ”silenziatore” come la riforma Cartabia, siamo testimoni della scelta di certe forze di polizia di inviare comunicati stampa per dare talune notizie e tacerne altre.
La conseguenza? In futuro, potreste sapere tutto dell’arresto dei poveri cristi, nulla di quando a finire nei guai sono professionisti, persone facoltose, o amministratori che, magari, possono contare sulla giusta amicizia politica per far arrivare da Roma l’ordine di censurare il comunicato stampa. Terzo pericolo: il silenzio sugli arresti era in voga in certe parti del sudamerica negli anni Settanta del secolo scorso. Non siamo, per fortuna, neppure lontanamente vicini a quei tempi e in quelle dittature. Ma è sempre meglio non perderne di pezzi di libertà. Per evitare che l’abuso di un silenzio imposto si tramuti nell’oltraggio della verità.
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