Le elezioni negli Usa e il peso Bitcoin

Intervenendo a Nashville a un meeting di quanti lavorano attorno a bitcoin, Donald Trump ha dichiarato che gli Usa diventeranno il luogo per eccellenza della crittovaluta. Se in passato aveva espresso opinioni negative al riguardo, oggi “The Donald” s’è fatto un sostenitore della moneta virtuale, che è ormai una forza politica destinata a giocare nelle prossime elezioni presidenziali.

Per giunta il candidato alla vicepresidenza scelto da Donald Trump, J.D. Vance, è un “bitcoiner”: ha dichiarato di possedere di più di 100 mila dollari in questa valuta. Delle due l’una: o parecchi anni fa ha investito lì qualche soldo; oppure di recente ha destinato una somma non insignificante.

C’è un altro dato anche più cruciale. Secondo un sondaggio condotto da Pew Research, circa 40 milioni di cittadini americani posseggono la moneta ideata da Satoshi Nakamoto e questo significa che sul piano elettorale si tratta di un gruppo di pressione che pesa all’incirca il 20% dei voti.

Benché sia nato soltanto nel 2008, bitcoin è ormai un asset adottato da tanti risparmiatori statunitensi, che quindi avverserebbero ogni decisione volta a limitarne l’uso.

Tutto ciò risulta con nettezza dalla lettura del programma elettorale del partito repubblicano, certo più vicino a quella parte d’America che osteggia le logiche inflazioniste. Oltre a ciò, un numero significativo di bitcoiner sta sostenendo la campagna di Trump e Vance, nella convinzione che una loro vittoria favorirebbe un’ulteriore crescita di quella che è, a tutti gli effetti, un’alternativa libertaria alle monete di Stato.

In ciò non vi è nulla di sorprendente. Fin da quando Nakamoto pose le basi del bitcoin era chiaro che si fosse di fronte a una realtà finanziaria, certo, ma anche e soprattutto culturale, politica, perfino ideologica. Senza il fallimento di decenni di politiche inflazionistiche, arbitrarie e redistributive legate al monopolio legale della valuta, allo sganciamento del dollaro dall’oro e al controllo esercitato dai poteri pubblici sulle banche commerciali, bitcoin non sarebbe mai nato. E infatti chi l’ha creato ha deciso, e una volta per tutte, che esisterà un numero massimo di bitcoin (21 milioni) oltre il quale non si potrà andare.

In questo modo la sfida all’ordine politico-monetario è chiara: si vuole togliere ogni potere alla Fed, saltare la mediazione bancaria e infine (e soprattutto) disporre di un bene non deperibile e che anzi cresca di valore nel tempo, nella persuasione che il risparmio sia importante e la capitalizzazione giochi un ruolo cruciale entro ogni economia sana.

C’è, infine, un ultimo dato. Se bitcoin manterrà le promesse e continuerà nella sua corsa verso l’alto (dodici anni fa valeva 10 dollari e ora ne vale più di 60 mila), vedremo emergere – soprattutto in America, ma non solo – una generazione di milionari venuta dal nulla e orientata a caldeggiare la concorrenza e opporsi al monopolio, favorire la responsabilità del mercato e avversare il parassitismo politico. Le conseguenze potrebbero essere enormi.

In questo quadro, non stupisce che perfino Kamala Harris stia modificando le sue tesi in materia. Alla fine, tutto torna.

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