La partita europea è solo all’inizio. All’indomani dello strappo di Giorgia Meloni a Bruxelles, la Francia va al voto in un clima di tensione («Il Paese si gioca la pelle», dice il giovane premier Attal), mentre inizia il semestre di presidenza Ue affidato a Orban, il bastian contrario del club che insidia le basi stesse dell’integrazione e dello Stato di diritto. Passaggi aspri per leader indeboliti dalle urne. Riassumendo: la premier italiana ha “spacchettato” il voto, astenendosi sulla popolare Ursula von der Leyen per la guida della Commissione e votando contro il socialista portoghese Costa per la presidenza del Consiglio europeo e la liberale estone Kallas quale responsabile della diplomazia Ue. Una decisione senza precedenti per l’Italia, socio fondatore, terza economia e, con la Francia, fra i Paesi sotto infrazione per eccesso di deficit. Le parole durissime pronunciate il giorno prima da Meloni in Parlamento, perché esclusa dall’accordo popolari-socialisti-liberali e decisa a rivendicare un ruolo per la destra e l’Italia (una vicepresidenza esecutiva e un commissario di peso), hanno lasciato il segno. Il suo primo problema, l’unico leader ad aver vinto alle Europee, è che non riesce a capitalizzare il risultato. Non l’aiuta una certa ambiguità («ambidestra» l’ha definita Prodi) in cui mischia ruolo istituzionale e guida di una famiglia politica che dissente dal modo in cui l’Ue s’è formata in questi decenni.
In Europa partiti e istituzioni non seguono le logiche alle quali siamo abituati e i numeri affermano che l’attuale tripartito conta su 22 dei 27 leader dei singoli Stati pari all’80% della popolazione. Meloni, giocando su più tavoli, prima ha cercato di aggregare le destre radicali, obiettivo non riuscito perché i nazionalismi sono in competizione fra loro: non si integrano e hanno una scarsa capacità di coalizione, tant’è che Orban sarebbe intenzionato a formare un terzo gruppo sfilando i polacchi a Meloni. Per quanto in alcuni casi in via di normalizzazione per necessità, le destre oltranziste mantengono tratti impresentabili e inaccettabili su temi essenziali come la democrazia pluralista (e non identitaria), i diritti umani, i pesi e i contrappesi forniti dagli istituti giuridici di garanzia. Poi Meloni ha cercato di rompere l’asse Ppe-socialisti-liberali e qui si arriva al secondo tempo, opportunità che intende sfruttare sino all’ultimo, come utile riserva: a quale prezzo?
Il 18 luglio l’Europarlamento deve esprimersi su Ursula, a maggioranza assoluta e con voto segreto. La leader tedesca, già delfina di Angela Merkel, ha solo una quarantina di voti di vantaggio, pochi rispetto ai franchi tiratori in agguato, compresi quelli possibili del suo partito. Le serve un soccorso esterno, ma i veti incrociati dei popolari sui verdi e quelli dei socialisti e liberali sui conservatori riducono i margini di von der Leyen per aprire da una parte o dall’altra, benché preferisca la soluzione a destra. I fattori d’instabilità si trovano nel centrodestra, nelle faglie tra i popolari, dove un filone tutto tedesco, gli azionisti di maggioranza, spinge con Tajani per l’apertura selettiva a Meloni sulla base di un’alleanza continentale che fa perno sull’appoggio all’Ucraina e alla Nato e sul freno alla transizione verde. Anche perché la relazione popolari-socialisti non appare più solida come un tempo.
Molto dipenderà da cosa succede in Francia. Se sconquasso ha da essere, bisognerà aspettare il prevedibile ballottaggio per valutare l’intensità dell’azzardo o del calcolo di Macron. Al momento il male minore, in una République già fratturata e stretta fra le due estreme di destra e sinistra, è lo stallo istituzionale. Macron, uomo dall’istinto elitario e in perfetta solitudine anche fra i suoi, nel tentativo di ribaltare l’esito delle Europee ha chiesto un referendum sull’Eliseo. Ma il rischio è che, perdendo di nuovo in casa con tutte le variabili del caso, esporti poi su scala continentale il malessere francese. Le recenti elezioni hanno colpito al cuore il motore storico franco-tedesco già in panne: il primo collassato, il secondo azzoppato. La coalizione del cancelliere tedesco Scholz naviga in cattive acque, a settembre deve affrontare una scivolosa sessione di bilancio e tre consultazioni regionali dove si teme una nuova avanzata dell’estrema destra e dei rossobruni. Macron, che nel 2017 aveva smontato il bipolarismo fra destra repubblicana (che in Francia significa democratica) e socialisti, ora si ritrova protagonista terzo e ai minimi termini nella trappola di un contesto dominato dall’estrema destra e dal Nuovo fronte popolare (un cartello elettorale d’emergenza fra populisti di sinistra, socialisti ed ecologisti che ha in comune soltanto l’avversione al presidente e a Le Pen) e con gli ex gollisti spaccati in due. La carica emotiva è talmente forte che azzera gli argomenti più razionali. Le cronache elettorali sono accompagnate dagli studi di psicologi che descrivono un Paese sull’orlo di una crisi di nervi. Questo è ciò che si osserva e, purtroppo, non sembra un inganno della vista.
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