Prima di chiedersi come sia andato l’incontro-scontro tra l’ex presidente Donald Trump e l’attuale vice-presidente Kamala Harris, bisognerebbe forse chiedersi se abbiano un senso, e magari quale, questi dibattiti tra candidati alla presidenza degli Stati Uniti.
Domanda a quanto pare non peregrina, visto che se la pongono analisti politici, istituti sociologici e forse anche non pochi comuni cittadini. Facciamo un esempio, il dibattito tra Trump e Joe Biden del giugno scorso.Il giudizio quasi unanime è che l’avesse “vinto” Trump. Non solo: prima del dibattito, secondo un’indagine Ipsos, il 42% degli interpellati disse di aspettarsi una performance debole o molto debole da parte di Biden; dopo il dibattito, a considerarla tale era il 72%.
E come sappiamo, le conseguenze politiche di quel dibattito furono importanti: lo stato maggiore del Partito democratico di fatto costrinse Biden a ritirare la propria candidatura. Non poca cosa, insomma. Peccato che, sempre secondo la ricerca Ipsos, il catastrofico comportamento di Biden nel dibattito avesse spostato pochissimi voti: solo il 2% di intenzioni di voto in meno per Biden, che dopo il dibattito era ancora in testa con il 44% contro il 42% di Trump.
Veniamo ora al match Trump-Harris. Una delle ragioni di interesse stava nel fatto che si contrapponeva un uomo che ha fatto molta televisione e che non ha alcun problema nell’affrontare le telecamere a una donna che, da Procuratrice generale della California, era diventata famosa per l’efficacia delle sue requisitorie. Come nel caso precedente, la maggioranza dei commenti ha premiato uno dei due: la vice presidente è risultata più grintosa e convincente, come se Trump non fosse riuscito ad adattarsi al nuovo avversario. Da qui l’incapacità di portare la discussione sui temi dove risulta più forte (tutti i sondaggi dicono che per l’economia è considerato più affidabile della Harris) e, al contrario, a subire la dialettica della Harris laddove questa è in vantaggio nei sondaggi, per esempio sul tema delle politiche sulla natalità e dei diritti delle donne. Chiara vittoria ai punti della Harris, quindi, senza che sia arrivato il colpo del ko.Anche in questo caso, però, ci soccorre un esempio. Nel 2016 i candidati Trump e Hillary Clinton si sfidarono in tre dibattiti e il giudizio comune fu che in tutte le occasioni la Clinton avesse superato Trump.
Però le elezioni le vinse Trump. E l’effetto dei dibattiti televisivi va misurato anche sulla particolarità del sistema elettorale americano. L’elezione del presidente non è un referendum: per arrivare alla Casa Bianca occorre conquistare non i voti popolari (la Clinton ne ebbe tre milioni in più, nel 2016), ma i grandi elettori Stato per Stato. Da qui, quindi, il relativo peso degli scontri televisivi tra i candidati, perennemente sospesi tra la tribuna politica e la finale del Super Bowl.
Non è chiaro se Trump e Harris si sfideranno ancora in pubblico. Quello che invece pare evidente è che la sfida vera avverrà nei cosiddetti “swing States”, ovvero negli Stati in cui non è ancora emersa una chiara intenzione di voto. Si tratta, per la maggior parte dei commentatori Usa, di Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, a cui potrebbero aggiungersi Florida e Nevada, dove la maggioranza è stata inferiore a 3 punti percentuali in 5 delle ultime 8 elezioni.
E lì, forse più delle prestazioni televisive degli aspiranti presidenti, conteranno le performance degli aspiranti vice presidenti, di solito incaricati di recapitare agli elettori gli impegni e le promesse di tenore locale che possono decidere la conquista o meno di uno Stato.
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