Al di là della vicenda personale del pensionato di Barzanò, un paese nel cuore della Brianza lecchese, che si è tolto la vita, temendo di essere sfrattato da casa e di finire a vivere in strada, questo gesto mette in luce il senso di solitudine in cui stiamo vivendo in questi anni di crisi, che lentamente sta creando un profondo malessere che riesce a togliere ogni speranza per il futuro, caricandoci di ansie e di paure.
È giusto non andare ad indagare le ragioni profonde che hanno portato quest’uomo a scegliere la soluzione più estrema, per una serie di motivi, innanzitutto quello della forma privata e riservata con cui ha voluto vivere il suo disagio e le sue paure, senza chiedere aiuto ai familiari e alle istituzioni, forse per una forma di orgoglio o anche per quella dignità di chi è povero e probabilmente non riesce ad ammetterlo, perché se ne vergogna. Non vogliamo entrare nella vicenda intima del pensionato, ma riflettere sulle crepe esistenziali che si stanno aprendo anche nella nostra Brianza, ritenuta terra, per anni, ricca, dove il benessere ha caratterizzato crescita economica e vita agiata ai suoi abitanti. Ora qualcosa si sta sgretolando: sembra un’affermazione ovvia, eppure non lo è, perché diventa difficile, per tutti, ammettere che la crisi economica, annunciata, vissuta e continuamente rimandata come conclusione, ci sta profondamente cambiando, in qualche modo ci toglie la forza di vivere, per le incognite di un “domani” che non riusciamo più a immaginare sereno, ma vediamo sempre più difficile e faticoso.
Ci manca l’entusiasmo, perché sta venendo meno il senso della speranza, che è diventata una parola in cui non riusciamo più a credere, pur con tutta la buona volontà e gli sforzi che ognuno di noi fa per dare ancora un senso alla propria esistenza. E questa forza che diventa debole, non ci permette più di avere quella lucidità di giudizio, quella serenità di “guardarci” in una situazione certamente difficile, ma di passaggio. Le paure ci invadono, la solitudine diventa una sorta di scelta obbligata, soprattutto quando le situazioni diventano più estreme e le certezze vengono messe in crisi, destabilizzando l’uomo, la sua possibilità di uscire da questo tunnel.
In questa vicenda c’è un elemento importante, quello dello sfratto, annunciato, temuto e probabilmente destinato a diventare esecutivo. La prospettiva di non avere più una casa ha messo in crisi ulteriormente quest’uomo, perché è di per sé un elemento destabilizzante forte, in quanto la casa è il luogo in cui si vive, rappresenta il riparo, la sicurezza rispetto a tanti aspetti della vita. E sappiamo quanto abbia comportato “la casa” nella cultura e nella tradizione della Brianza: il lavoro è stato, negli anni Sessanta e Settanta, finalizzato al fatto di riuscire a costruire una propria casa, come elemento di progresso personale, ma anche come orgoglio rispetto al riscatto da una condizione di povertà come quella vissuta negli anni della guerra e nei primi del dopoguerra. La casa, oltre che sicurezza, è stata sempre intuita come valore, anche da chi non è riuscito né a costruirla, né a comprarla. Perdere la casa, in Brianza, significa essere privato delle proprie radici, di quella sicurezza che genera e che può essere, anche nella fatica e nell’indigenza, un antidoto alla solitudine.
Sappiamo che sono i più deboli a pagare per questa crisi, che nonostante i proclami dei politici, diventa sempre più pesante e anche questa storia di profondo dolore è esemplare in questo senso, perché da una parte mette in luce il pudore nel dichiarare la propria povertà e dall’altra ci mostra come questa generale incertezza può avvelenare le nostre radici, con tutti i rischi che ciò comporta.
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