La sua ultima
telefonata:
era l’amico
di una vita

Alle 22 di martedì sera squilla il cellulare: sul display appare Guido Puccio. Non mi stupisco, perché capitava spesso. Ma non sento la sua solita voce, solo un “Ciao Marco” sibilante, come un rantolo. Quasi l’annuncio di un congedo imminente. “Ho bisogno di sentirti con urgenza, appena posso ti chiamo”. E ora sono qui a ricordarlo con il sentimento dell’amico ferito, anche se non sorpreso perché Guido da anni lottava con un accavallarsi di patologie contro le quali si batteva con lo spirito leonino che ne ha caratterizzato la vita pubblica e privata. Altri in queste pagine si cimenteranno nel consueto esercizio del ricordo, tra l’altro scandito da date ed eventi che hanno segnato la storia della nostra città. A me sia lecito riprendere il filo della nostra amicizia, quando io adolescente frequentavo casa sua e con lui e suo fratello Silvio, l’amato e amabile professore del liceo scientifico scomparso tre anni fa, si alimentava la comune passione per la cultura e, con Guido, inauguravo la frontiera della politica.

Avevano perso la madre, austriaca, in giovanissima età e a provvedere alla famiglia ci pensava il papà Peppino, maresciallo della Finanza, un siciliano che leggeva tre libri alla settimana e instillava nei figli e negli amici questo gusto che va sempre più inaridendosi.

Un flash: conobbi grazie a loro il rappresentante della Einaudi che vendeva libri a rate ed io, capito il meccanismo e conquistato mio padre, firmai contratti a iosa. E non so se tutte quelle letture mi abbiano fatto così bene. Certamente mi hanno permesso di spaziare dalla letteratura (Pavese, Moravia gli americani Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos) ai saggi (Salvemini e gli autori dell’uno e dell’altro fronte ideologico).

Guido, laureato in Economia e Commercio alla Cattolica da lavoratore studente, irruppe sulla scena politica lecchese e divenne segretario della Dc e poi sindaco a 32 anni. Competente, affabulatore, a volte sin troppo distaccato sicché era più stimato che amato. Il suo tratto, a volte persino cinico, lo portava d’istinto a dissacrare luoghi comuni e comuni sensibilità. Uno stile che gli costò cinque anni dopo la riconferma come sindaco. Ve la devo raccontare.

In quegli anni divenni segretario cittadino dello scudo crociato e toccò a me chiedere a Guido di farsi da parte perché la maggioranza del partito non voleva concedergli il bis. Provai a riscattarmi candidandolo alla Regione, in scia al potentissimo presidente Cesare Golfari. Mancò il seggio per un pugno di voti, che gli restò sullo stomaco e ne segnò il carattere, specie quando fu battuto alle provinciali da Mario Anghileri, un bravo figliolo che sul piano strettamente politico stava a Puccio come Tagnin a Suarez nell’Inter. Guido era un cattolico moderato e un fervente juventino: negli ultimi tempi non seguiva in tv i bianconeri perché si emozionava troppo e “ho paura che il cuore mi ceda”. Una balla colossale, Guido. Un tipico gioco dei tuoi: la verità è che il cuore inteso come organo ti ha sorretto fino all’ultimo respiro, mentre, lasciami la battuta, sono i reni ad averti dato il colpo di grazia. La verità è che godevi troppo ad ascoltare una delle tue cinquanta radioline e a scribacchiare con una delle tue mille penne acquistate in ogni angolo del mondo. Perché Puccio aveva una penna felice (il direttore Minonzio, anche se interista, lo apprezzava e pubblicava volentieri fino a qualche settimana fa brevi saggi di economia, la tua tazza di tè).

Io invece ho sempre nutrito una stima confinante con l’invidia quando scrivevi di viaggi e mi spedivi i pezzi malignamente sapendo che Rivabella era la mia caput mundi. Non credo di esagerare dicendo che alcuni tuoi appunti su luoghi del mondo non avevano nulla da invidiare alle memorie di Stendhal.

E come posso trascurare la tua studiata indifferenza quando venivi criticato nel periodo d’oro della tua precoce carriera politica che, toccò l’apice – per quanto mi riguarda – quando ti dedicai una mia rubrica “Il dito nell’occhio” e la intitolai GP electronic per satireggiare sulla tua mania per ogni conquista tecnologica, proprio un subdolo dispetto a me che sto dettando questo articolo. Ma che fa l’astuto Puccio? Alza il telefono come facevano taluni miei bersagli e mi copre di insulti? Nossignore, mi recapita nello stesso giorno un bellissimo golf di cachemire, con una scritta “Ne avrai bisogno per sopportare il freddo delle tue escursioni estreme ai Piani Resinelli”.

Una domenica al mese ero ospite da te per i maccheroni con un sugo che descrivevi neanche si trattasse del nettare degli dei. Frequentavi le figure retoriche e l’iperbole era il tuo pane quotidiano. Lasciami ancora dire che hai avuto accanto, insieme ai due figli, una donna formidabile, a me particolarmente cara: quella Luisella Gambarelli che ti sopportava e condivideva le sfide del vivere e ti lasciava fare la parte dell’intelligentone nonostante lei fosse stata da sempre e per sempre la miglior studentessa del Parini di Lecco, diplomata con la media del 10.

Cito anche la casa Puccio di via Ariosto, una sorta di cenacolo per quelli della mia generazione, le galoppate sulla fascia sinistra quando inventavi gol pur essendo poco più che una schiappa (mentre tuo fratello era un centrocampista illuminato e illuminante). Va da sé che potrei comporre pagine su pagine. E stai certo che la tua scomparsa, annunciata ma pur sempre improvvisa, non cancellerà la traccia del tuo impegno politico, sociale, culturale. Me ne faccio un punto d’orgoglio, e intanto non ti saluto come vorresti tu con il congedo di Gianni Brera “che ti sia lieve la terra”, ma con una formula che tristemente sto facendo mia perché troppi amici se ne vanno: “Guido, non sei passato accanto a me inutilmente”.

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